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Ecco come Moretti ha trasformato le Ferrovie dello Stato in un servizio d’èlite

Business, buona stampa e politica, così il manager ha stravolto le Fs e operato tagli al personale per oltre 10 mila unità. Maxi investimenti nelle Frecce Rosse e totale abbandono dei treni regionali hanno reso Trenitalia un'azienda sempre più ad uso di uomini d'affari e imprenditori

 

di Daniele Martini  da Il Fatto Quotidiano del 18/12/2012

http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/12/18/la-manovra-classista-del-signor-moretti/178384/

 

C’è un Truman show alle Ferrovie come c’era nell’Italia di Berlusconi. Con un mattatore indiscusso: Mauro Moretti, amministratore delegato, 58 anni. Da quando nell’autunno del 2006 è diventato il dominus dei binari ha cambiato tutto. Non in meglio. Le vecchie e polverose Fs che macinavano soldi, ma che almeno tentavano di portare dignitosamente la gente da una parte all’altra della Penisola senza dimenticare la loro funzione pubblica, sono state sostituite da un’altra Cosa. Un’entità che grazie a una propaganda tenace, asfissiante e aggressiva è stata spacciata come il Mulino bianco dei binari. Cosa d’élite. Ma dietro i tagli dei nastri a ripetizione, le interviste a briglia sciolta e le pubblicità a pagine intere con i convogli rosso fuoco che sfrecciano in campagne rigogliose sullo sfondo di cieli azzurrini, la realtà resta pedestre e le attuali Fs non sono belle a vedersi. Sono una Cosa pubblica dal punto di vista della proprietà, ma nemmeno per un istante pensata ancora per tutti i cittadini. Sono diventate una Cosa d’élite. Di statale conservano parte dei finanziamenti e a malapena la ‘s’ dell’acronimo, di recente cambiato pure quello (ora ufficialmente si chiamano Ferrovie dello Stato italiane). Come se sui 16.701 chilometri di binari viaggiassero solo i Frecciarossa e fossero figli di nessuno i 9 mila normali treni al giorno, quelli dei pendolari maltrattati come cittadini di serie zeta, i treni regionali e quelli della gente comune che in maniera possibilmente decente dal nord vorrebbe spostarsi al sud e viceversa, i frequentatori dei notturni, i viaggiatori dei convogli sulle lunghe distanze. A tutti questi è come se lo Stato ad un certo momento avesse fatto dire da Moretti: arrangiatevi.

Via 10 mila ferrovieri. La cosa più stupefacente è che tutto ciò è avvenuto con la politica in stato di abulia. Governo e Parlamento si sono voltati dall’altra affidando in pratica una delega in bianco a Moretti che è diventato così come il prototipo di quella logica che poi ha partorito i tecnici al governo. Anche lui la delega l’ha assunta in pieno, concentrando ogni attenzione sui servizi definiti “a mercato”, i treni Roma-Milano soprattutto, su cui viaggiano manager, businessmen e direttori di giornali e che garantiscono quattrini, immagine e buona stampa. Secondo un recente studio del Politecnico di Milano questi collegamenti sono cresciuti quasi del 3 % dal 2009. E aumenteranno ancora quando sulle stesse tratte tra qualche mese correranno i convogli privati della montezemoliana Ntv. Nello stesso periodo, però, sono arretrati tutti gli altri collegamenti delle Fs pubbliche: di oltre il 18 % il servizio universale senza contribuzione e più del 10 il servizio non a mercato e non contribuito. Mentre i treni merci statali sono diventati Cenerentole. L’unico freno imposto a Moretti dalla politica è che le Ferrovie non aprissero nuove voragini nei conti pubblici. Moretti ha eseguito infierendo anche sull’organico ridotto sotto il suo regno da circa 87 mila a 77 mila ferrovieri. Nessuno nel frattempo ha fatto il conto di quanto costa agli italiani la progressiva erosione delle ferrovie come bene di tutti.

Quella di Moretti è stata, in pratica, una gigantesca manovra di classe, sostenuta da un apparato propagandistico all’erta 24 ore su 24 a sostegno delle ragioni del Capo identificate con quelle dell’azienda e dell’Italia. Alle Ferrovie e in qualche misura anche fuori di esse non c’è posto per chi si oppone, ma neanche per chi osa solo dire ma. Come i familiari delle vittime della strage ferroviaria di Viareggio, per esempio, venuti a Roma il giorno dell’inaugurazione della stazione Tiburtina e neanche degnati di uno sguardo da Moretti. Finché è possibile, giornali e giornalisti sono blanditi, altrimenti redarguiti con letterine a cui l’ufficio stampa si dedica con diuturno e pedagogico zelo. Fino a negare l’evidenza, come è successo proprio di recente al Fatto, accusato di propalare “palesi falsità” per avere raccontato la storia degli 800 licenziati dei treni notte. Non di rado scatta pure la querela a scopo intimidatorio.

Bandiera rossa? Per ironia della sorte tutto ciò è opera di un uomo che in passato aveva impugnato un’altra bandiera, quella rossa dei comunisti e della Cgil. Moretti è stato a lungo un dirigente di quel sindacato e non uno tra i tanti, ma proprio il capo dei ferrovieri (Filt). Un sindacalista competente, sorretto da una preparazione specifica non comune, maturata all’università di Bologna dove si era laureato con la lode in ingegneria ferroviaria. Alle Ferrovie fu assunto per concorso 33 anni fa, allora prendeva meno di 1 milione di lire al mese, ora riscuote almeno 100 volte di più. I binari li ha sempre visti da lontano. Da sindacalista già frequentava villa Patrizi, sede romana Fs, quando presidente era Lodovico Ligato, poi ucciso dalla ‘ndrangheta il 27 agosto 1989. Dopo la parentesi di Mario Schimberni fu Lorenzo Necci a trasformarlo da sindacalista a manager. E quando Necci fu travolto dagli scandali, Moretti fu l’unico di quel gruppo a sfangarla. Il nuovo arrivato, Giancarlo Cimoli, lo nominò amministratore di Rfi. E passato anche Cimoli, il dalemiano ex sindacalista Moretti con Elio Catania amministratore cominciò a carezzare il sogno di diventare lui il numero uno, coltivando allo scopo relazioni a destra e a manca, da Gianni Letta a Ercole Incalza, dirigente craxiano finito nei guai ai tempi di Necci, poi consigliere dei ministri Pietro Lunardi e Altero Matteoli. Nessuno più di Moretti incarna la continuità ferroviaria. Nessuno più di lui ha stravolto le ferrovie.