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No Tav, in difesa della libertà di ricerca. Risposta alla procura di Torino

I ricercatori, gli attivisti, gli studiosi e gli avvocati presenti a un incontro a Venaus il 21 luglio scorso hanno scritto una lettera a La Stampa, chiedendone la pubblicazione, a seguito della condanna di Roberta Chiroli autrice di una tesi di laurea sul movimento No Tav. La lettera è una risposta a Francesco Saluzzo, Armando Spataro, Alberto Perduca, magistrati della procura di Torino, a una lettera del regista Paolo Virzì a una studentessa e attivista No Tav che si è sottratta ai provvedimenti restrittivi della procura. Entrambe sono apparse sulla “Stampa”. “Ad oggi – scrivono gli estensori di questa lettera – non vi è stata risposta, né la lettera è stata pubblicata. Come promesso, la rendiamo pubblica qui e su altri mezzi di informazione libera”.

 

da Il Manifesto del 06-08-2016

 

Caro Direttore,

 

confidiamo che questa nostra lettera possa essere pubblicata così come aveva in precedenza trovato spazio quella a firma dei magistrati dirigenti presso la Procura piemontese ( Francesco Saluzzo, Armando Spataro, Alberto Perduca). Vorremmo replicare, per chiarezza, alle argomentazioni proposte.

 

Giovedì 21 luglio, a Venaus, si è svolto un incontro organizzato dal movimento No Tav, con la partecipazione (e con la collaborazione) di ricercatori, studiosi, avvocati e docenti universitari. Effimera ha presentato, durante i lavori, le 2314 firme raccolte in solidarietà a Roberta Chiroli per la condanna ricevuta sulla base della sua presunta partecipazione ad un’iniziativa No-Tav, sottolineando che la prova regina dell’accusa consisteva proprio nella sua tesi di laurea. Scopo dell’appassionata tavola rotonda era il discutere della libertà di ricerca in Italia, quando essa interessa argomenti “sensibili” come movimenti e forma di resistenza sociale.

 

La notizia della condanna ha suscitato grande preoccupazione nell’ambiente della ricerca universitaria; ad una prima verifica dei fatti e della dinamica del processo è risultato chiaro che oggetto del processo non fossero tanto comportamenti materiali, ovvero azioni ritenute – a torto o a ragione – illegali; al centro della motivazione della condanna si colloca proprio il testo (il contenuto) della tesi di laurea, dunque e conseguentemente la stessa metodologia scelta per la ricerca che costituiva il corpo stesso della tesi di laurea. Abbiamo appurato che la condanna – per concorso morale , ribadiamo morale – abbandonava la richiesta di condanna per concorso materiale non sostenibile alla luce della documentazione visiva prodotta sia dalla difesa che dall’accusa. E il concorso morale era motivato dall’utilizzo di una fondamentale metodologia di ricerca etnografica nota nel mondo come “osservazione partecipante”.

 

Ricordiamo che anche le quattro associazioni di studi di Antropologia hanno manifestato la loro preoccupazione per la condanna a Roberta Chiroli. Che il giudice e i magistrati inquirenti non conoscano le metodologie della ricerca etno-antropologica è già poco commendevole; vantarsene e fondare sulla non-conoscenza una sentenza di condanna è inaccettabile, crea un danno alla credibilità stessa dell’istituzione. Le motivazioni hanno confermato la lettura critica; e delle motivazioni non si trova traccia nel commento critico proveniente dai vertici della Procura piemontese (inutile polemizzare: questa lettura era l’unica possibile alla luce del processo, vista l’assoluzione della seconda ricercatrice imputata, che non aveva utilizzato lo stesso stile espositivo).

 

L’accusa dei tre magistrati piemontesi, ovvero di aver formulato l’appello per la liberà di ricerca prima ancora di conoscere le motivazione della condanna appare del tutto pretestuosa ed evanescente. Sono loro piuttosto che intervengono per fatto personale.

 

La vicenda dimostra inoltre una certa difficoltà della stessa Procura di Torino a far fronte all’ampliarsi delle critiche al modo di operare. Per esempio quella relativa al fatto che non vi sia una distribuzione tra gli uffici competenti dei processi istruiti per quanto riguarda la lotta No-tav (anche per una semplice “resistenza a pubblico ufficiale”, o per “occupazione di suolo pubblico”) ma che essi vengano d’ufficio assegnati alla sezione “Terrorismo e eversione sociale”. Questa è davvero una pregiudiziale (tecnicamente incomprensibile) che già la dice lunga sulla volontà di risolvere il conflitto sociale con l’uso repressivo del procedimento giudiziario (il diritto penale del nemico, direbbero Livio Pepino e Marco Revelli).

 

Le piccate reazioni nei confronti di alcuni colleghi dell’ex procuratore piemontese (dal 1968 sino al 2008) Tinti ad alcuni colleghi di MD – Area, rei di chiedere maggior cautela nell’imbastire processi No-Tav al limite del ridicolo, dimostrano la necessità per la (monolitica?) procura di Torino, di avviare,per la prima volta, una difesa pubblica del proprio operato. Operato, oramai caratterizzato in modo sempre più vistoso da una carica vessatoria e discriminatoria nei confronti degli attivisti No-Tav. Peccato, al riguardo, che il dott. Spataro non abbia ritenuto utile partecipare al dibattito, svoltosi proprio su questi temi, presente anche un suo collega inquirente, Enrico Zucca, di Genova. Presso la Galleria d’Arte Moderna veniva presentato uno straordinario e potente filmato documentario con titolo significativo: “Archiviato”. Era il 5 luglio, verteva sull’impunità dei gendarmi responsabili di violenza alle persone.

 

Nell’incontro sulla libertà di ricerca, a Venaus, tale deriva autoritaria e giustizialista è stata esaminata con estrema preoccupazione perché va a intaccare anche la stessa attività di ricerca e a condizionarne gli esiti.

 

La richiesta presentata nella lettera dei tre magistrati tende a eludere la sostanza del problema, con l’artifizio di un invito ad attenersi a “precisazioni per non creare convincimenti fondati su distorte ricostruzioni dei fatti”. E chi non è d’accordo? Purtroppo tale “scrupolosa attenzione ai fatti” non sembra essere valida per gli stessi inquirenti, come dimostrano diverse inchieste, dove persone che commettono lo steso atto (ad esempio, aver oltrepassato un limite di passaggio) hanno subito trattamenti diversi, a seconda del loro ruolo e dei rapporti con le forze dell’ordine (per esempio, giornalisti liberi o giornalisti “embedded”). Oppure quando una documentazione visiva disconferma senza ogni ragionevole dubbio una versione fornita da un poliziotto o da un carabiniere, ma non viene presa in considerazione. Si preferisce piuttosto convalidare (e sentenziare) solo in danno degli antagonisti, anche contro l’evidenza.

 

Come un mantra, utile a giustificare la repressione, viene poi richiesto un auto da fe, una condanna acritica e immotivata di qualsiasi violazione della legge, equiparata senza distinzione a mera violenza; un auto da fe chiesto solo alla parte antagonista, mai a quella che detiene il controllo della forza e di fatto il monopolio della violenza.

 

Non è corretto confondere un comportamento illegale con un comportamento violento. Il movimento non violento (la tecnica di Gandhi) ha sempre praticato la protesta mediante “anche” la violazione della legge. Assumersene la responsabilità sociale, civile e politica nulla ha da spartire con il tema della violenza e, a maggior ragione, con quello del terrorismo. Per dare dignità all’azione repressiva si agitano suggestioni e si chiedono penitenze.

 

Va allora subito chiarito che in tutte le iniziative NoTav, gli “obiettivi” sono sempre stati i lavori di scasso, le ferite al territorio le recinzioni e l’occupazione militare delle proprietà pubbliche o private (anche del comune). Non le persone. Si tratta quindi di atti di resistenza all’ingiustizia e non di violenza terroristica. A meno di usare definizioni pseudo giuridiche astratte per l’analizzare un processo sociale e collettivo come quello del popolo di Valsusa, tali azioni non sono caratterizzate dalla volontà di colpire le persone, né a ottenere vantaggi per chi le esercita.

 

Sono azioni per e contro le “cose”, e non per e contro le “persone”. In gioco sono istanze legittime, riassumibili nel diritto delle popolazioni che abitano in un territorio a rifiutare modifiche non necessarie dell’ambiente di vita, foriere di un apprezzabile degradazione della qualità dell’esistenza (parte integrante, peraltro, dei cosiddetti “diritti di nuova generazione”). Il tribunale dei popoli ha condannato lo stato italiano proprio per questo.

 

Non è soltanto illegalità (e certamente non è gandhiana) la violenza oggettivamente impunita, ma certa e certamente avvenuta, consumata dalle cosiddette forze dell’ordine (un termine atecnico, gergale, per riunire un corpo smilitarizzato come la polizia a quello militare come i carabinieri). Le cariche, le ferite, i pestaggi sono violenza, e il tradimento della funzione costituisce, per i militari, concreta eversione. La lettera dei tre magistrati piemontesi contiene la serafica confessione di non aver potuto identificare i colpevoli, dunque la scarsa efficienza dell’apparato inquirente. Ma non abbiamo trovato l’auto da fe dei dirigenti di una procura che ha fallito nello stanare i colpevoli; la presa di distanza dai poliziotti violenti, l’impegno a scoprirli e punirli, la tolleranza zero nel prossimo futuro. A fronte dell’impunità diviene oggettivamente violenta intimidazione anche la condanna a due mesi di reclusione di Roberta Chiroli per concorso morale connesso alla ricerca oggetto della sua tesi di laurea.

 

Come libera assemblea di ricercatori non ci sfugge affatto che processi sociali collettivi come quelli in Val di Susa possano concretarsi, talvolta, in consapevoli trasparenti azioni simboliche e dimostrative che violano le norme vigenti; ma rifiutiamo che tali illegalità siano definite equiparate alla violenza terroristica. Non è per niente così! Una serena osservazione mostra anzi che non di rado alcuni comportamenti sono in origine dentro il perimetro del giuridicamente consentito, ma ne escono poi in ragione di una gestione (cattiva, malaccorta e miope) dell’ordine pubblico da parte di chi è preposto a tutelarlo nell’interesse di tutti e non solo delle imprese cantieristiche. L’impunità assicurata ai militi violenti (quella documentata in “Archiviato”) è un detonatore che provoca malessere, disagio, qualche volta perfino scontro acceso e violento.

 

Isolare la violenza? Certo. Ma come? Reprimendo la maggioranza e imponendo con la mannaia della legge il profitto del più forte? Non crediamo. Per questa via la pacificazione, come ebbe a notare il generale De Gaulle parlando d’altro, si rivela per la procura piemontese “un programma vasto”.