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Valsusa, lamento di un prato distrutto dopo 15 mila anni

di Luca Mercalli da Il Fatto Quotidiano del 02-02-2023

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2023/02/02/valsusa-lamento-di-un-prato-distrutto-dopo-15-mila-anni/6982649/

 

Chi vi parla è il suolo terrestre alle coordinate 45.094 N, 7.436 E. Un appezzamento di terreno agricolo pianeggiante nel Comune di Caselette, 30 km a ovest di Torino, all’imbocco della valle di Susa. Sono nato circa 15.000 anni fa, dai detriti abbandonati dal grande ghiacciaio che per circa 20 millenni aveva riempito l’intera valle. Al ritiro dei ghiacci ero una distesa di sabbia, ghiaia e ciottoli, percorso dalle piene di quello che oggi scorre tranquillo a poche centinaia di metri da me: il fiume Dora Riparia.

 

Furono le sue acque torbide a deporre sopra di me uno strato di soffice limo. La temperatura si addolcì e cominciai a ospitare erbe e arbusti. Foglie e rametti mi arricchirono di prezioso humus e secolo dopo secolo fui ricoperto da una florida foresta di roveri, frassini, salici, pioppi. Alle soglie dell’Olocene mi ero trasformato in un suolo maturo, fertile, umido e pieno di vita. Iniziavo a essere percorso dai piedi di un bipede che cercava frutti, cacciava animali e curiosava verso le montagne che voi ora chiamate Alpi.

 

Prima costruiva capanne di frasche, poi casupole di pietra, finché due millenni fa genti venute dal sud – li chiamate Romani – in pochi secoli mi disboscarono, tracciarono solchi con attrezzi trainati da buoi per seminare cereali, sistemarono una strada di pietra ed eressero sontuose ville che traevano la loro ricchezza proprio dai miei raccolti. Ma tutto ciò non mi dispiaceva: mi curavano bene, mi concimavano con grasso letame, il gioco di radure e boschetti mutò il panorama selvaggio in un nuovo paesaggio armonioso che rimase quasi immutato per venti secoli.

 

All’inizio di un’età che voi chiamate Novecento, sull’antica strada delle Gallie, dove avevo sempre visto passare umani a piedi e a cavallo, carretti e carrozze, giunsero mezzi rumorosi e fumosi che presto – con molta meno delicatezza dei buoi – rivoltarono profondamente le mie zolle. Ma io ero sempre lì, paziente e produttivo. Passata una grande guerra degli umani, altre novità incalzavano: quei pesanti macchinari spargevano intrugli velenosi che uccidevano i miei ospiti di sempre: insetti, vermi, e perfino alcune erbe. E al lato della strada delle Gallie, sulla quale comparve un cippo con scritto “SS24 del Monginevro”, aumentarono a dismisura quei mezzi rumorosi che gettavano strani oggetti dai finestrini: involucri colorati che non riuscivo a metabolizzare, per quanto li attaccassi con i miei funghi, niente da fare, resistevano, brutti da vedere e indigesti a tutti i viventi: era la plastica, che ora impesta i miei strati rilasciando lentamente i suoi veleni.

 

Mi è sempre sembrato strano che quei bipedi prima mi inquinassero così tanto e poi si mangiassero i raccolti cresciuti su quei veleni. Ma sapevo che sul lungo periodo sarei riuscito a depurarmi, tanto più che quei bipedi mi avevano classificato al primo posto tra i suoli migliori al mondo, segnando su una mappa “Classe prima di capacità d’uso, si può coltivare di tutto senza limitazioni”.

 

Ero orgoglioso di essere il migliore e pensavo così di essere rispettato e conservato come un gioiello, perché non siamo in molti sul pianeta a poterci fregiare di queste caratteristiche così pregevoli.

 

Poi, un giorno della caldissima estate 2022 – così calda come non avevo mai sentito dalla fine della glaciazione – da una di quelle scatole metalliche su ruote scesero un paio di bipedi che mi misurarono, fecero dei buchi e appesero un cartello. Non so leggere i loro segni e non ci diedi peso. Un mattino d’inverno, mentre riposavo tranquillo nel mio letargo, fui svegliato dal rombo di giganteschi carri, feroci ruspe iniziarono a scarnificare il mio prezioso humus che avevo impiegato millenni a produrre, e poi attaccarono gli strati di ghiaia sottostanti, caricandoli sui carri e portandoli via. Ho urlato di dolore, nessuno mi ha sentito. Vennero altri carri che riempirono i buchi di materiale indigesto, cocci, macerie, cemento, asfalto, sintomo di altri miei simili sbancati e martoriati.

 

Più tardi, altri due bipedi che avevano studiato la scienza dei suoli si fermarono inorriditi e lessero ad alta voce il cartello: “Coltivazione giacimento sabbia e ghiaia. Nooo…”. Sono perduto, esclamai. Che sciagura inaudita, quindicimila anni di vita spazzati via in una settimana. Ed ero pure tra i terreni migliori! Ma perché, perché? Vorrei ribellarmi, oppormi, lottare contro quei distruttori, ma non posso. Sono qui a subire, a soffrire, e prima di scomparire del tutto affido a questi rari umani sensibili il mio messaggio alla loro stirpe: “Siete malati nella testa, scomparirete dopo di me. La mia vendetta sarà lenta ma inesorabile. I vostri figli moriranno di fame, questa terra preziosa che avete annientato non vi darà più cibo. Le alluvioni vi travolgeranno, io non vi proteggerò più, l’acqua sarà inquinata, io non la filtrerò più per voi, l’estinzione della vita nascosta che era in me vi trascinerà in un gorgo tenebroso. Senza suolo non potrete vivere. Vi ho servito con lealtà per millenni, voi invece siete una specie avida, senza limiti, ingrata ed egoista. Vi maledico per l’eternit…” Roarrrr, clang, clang, broooom.