Seminario

TAV e modello di sviluppo

 

Torino, 10 Dicembre 2005

 

Alta Velocità e modello produttivo

Intervento di ANGELO TARTAGLIA

 

Il Prof. Angelo Tartaglia è docente di fisica presso la Facoltà di Ingegneria del Politecnico di Torino

 

Quello dell’Alta Velocità ferroviaria non è un tema che si possa affrontare di per sé, a prescindere dal contesto socioeconomico in cui si cala. Trattandosi di un grandissimo investimento esso deve essere analizzato in relazione ai bisogni del paese e della sua struttura produttiva.

 

La vicenda ha inizio una quindicina di anni fa quando già da qualche tempo aveva cominciato a porsi il problema dell’ammodernamento delle ferrovie italiane. La strategia individuata in sede tecnica comportava interventi di adeguamento e potenziamento dell’intera rete nazionale da effettuarsi progressivamente, criticità per criticità, in modo da produrre rapidamente dei vantaggi, minimizzando i disagi.

La strategia viceversa adottata in sede “politica” fu quella di concentrare gli investimenti su linee interamente nuove lungo due dorsali formanti una grande T che avrebbe collegato Milano con Napoli, lungo l’asse Nord-Sud, e Torino con Venezia e Trieste sull’asse Est-Ovest, con raccordi al di là delle Alpi verso Lione da un lato e Lubiana dall’altro. Fu anche, sempre in sede politica, definita la tecnologia: l’Alta Velocità, cioè un sistema destinato a treni in grado di raggiungere e mantenere velocità di 300 km/h.

 

In effetti ciò che ciascuno si aspetta è che innanzitutto si definisca bene il problema da risolvere e poi, ciò fatto, se ne cerchino le possibili soluzioni, confrontandole fra loro in modo da individuare la più conveniente. Solo a conclusione di questo processo ragionevolmente si può prendere una decisione, ma così non è stato: prima si è definita la soluzione e poi si è cercato il problema.

Il primo problema individuato, a valle della soluzione, è stato quello del trasporto passeggeri. In effetti ciò era congruente con i modelli cui ci si era ispirati: le ferrovie giapponesi con lo Shinkansen e le ferrovie francesi del TGV. Subito (si era intorno al 1990) cominciò un gran battage pubblicitario, attraverso i mezzi di comunicazione di massa. L’immagine trasmessa al grande pubblico era quello di una nuova ferrovia rapidissima e modernissima che avrebbe consentito di spostarsi, per l’appunto ad alta velocità, da un capo all’altro del paese e anche dell’Europa. L’idea risultava in effetti affascinante e tale da indurre con facilità nell’opinione pubblica un orientamento favorevole che per lo più permane fino a che l’argomento non venga approfondito. D’altra parte l’approfondimento è possibile solo se viene fornita una informazione completa e indipendente, cosa che in generale non è avvenuta, mentre invece ogni argomentazione critica è stata per anni sottoposta letteralmente a censura.

 

Proviamo dunque a ragionare, senza chiamare in causa complesse argomentazioni tecniche ma solo facendo riferimento a pochi dati essenziali noti da tempo. Nel nostro paese circa l’80% degli spostamenti quotidiani di persone avviene su distanze, per ogni singolo viaggio, non superiori ai 100 km. Ora, è chiaro a chiunque che l’Alta Velocità dà vantaggi tanto più consistenti, in termini di riduzione dei tempi di viaggio, quanto maggiore è la distanza tra una fermata e l’altra. In concreto il risparmio di tempo diventa economicamente interessante (tale cioè da giustificare l’investimento) quando le singole tratte sono lunghe almeno 200-250 km o più (come appunto avviene in Francia).

Detto in altri termini, l’AV può essere interessante per il 20% della domanda, ma non lo è per il restante 80%, soprattutto se essa si pone in competizione con interventi diversi dall’alta velocità medesima.

Che la situazione italiana sia questa non lo dicono solo le indagini di mercato, ma anche semplicemente la carta geografica. Per ragioni storiche il nostro paese, a differenza di altri, è costituito quasi ovunque da un tessuto di città medio-piccole che distano tra di loro poche decine di chilometri. Lungo l’asse emiliano vi sono città importanti che distano 50-60 km una dall’altra, tra Bologna e Firenze ci sono circa 70 km, tra Torino e Milano, mal contati, 130 km con però lungo il percorso Novara (e sulla linea storica anche Vercelli). Insomma è chiaro il perché l’80% della domanda è rivolta verso viaggi relativamente brevi. Questa domanda, come con crescente frequenza indicano le cronache del disservizio ferroviario, è interessata ad un servizio: a rete, non solo lungo alcune dorsali; con treni puntuali, frequenti, comodi e sicuri. La velocità è sostanzialmente marginale in tutto ciò.

Il problema di cui l’AV dovrebbe essere la soluzione in definitiva non è il trasporto passeggeri, almeno in Italia, anche se si è continuato ad affermarlo con spudoratezza e arroganza, a dispetto di ogni evidenza, per alcuni anni.

 

Con altrettanta spudoratezza si è continuato ad affermare, proprio perché si diceva che i passeggeri (di lunga percorrenza) fossero tanti da rendere l’intervento redditizio, che l’AV sarebbe stata realizzata a spese di investitori privati. Questa affermazione è stata sempre, fin dal primo momento, assolutamente falsa. In capo ad alcuni anni però, di fronte alla plateale evidenza, i proponenti hanno dovuto arrendersi e ammettere che il flusso di passeggeri ragionevolmente prevedibile non sarebbe mai stato tale da rendere economicamente interessante il TAV e giustificarne l’investimento. Preso atto che privati disponibili a mettere capitale di rischio nell’opera non ne esistevano, la classe dirigente del paese (quella parte che sostiene l’opera) è passata ad affermare con tranquilla e sempre arrogante ovvietà che è evidente che le grandi opere pubbliche vengono finanziate dallo Stato, è sempre stato così e così sempre sarà. Danno inoltre come altrettanto ovvio che una grande opera sia comunque sempre di effettivo interesse pubblico e omettono di sottolineare che il finanziamento pubblico del TAV è fatto però con criteri privatistici, ma in sostanziale assenza di concorrenza e controlli. A prescindere da tutto e da tutti l’opera è partita con una previsione iniziale di spesa per tutte le tratte della T, esclusi i nodi (cioè le stazioni), di circa 15 miliardi di Euro (30.000 miliardi di Lire). A oggi (dicembre 2005) per le sole tratte effettivamente iniziate, ma inclusi i nodi, cioè la Roma-Napoli (l’unica appena completata), la Bologna-Firenze, la Milano-Bologna (parzialmente), la Torino-Novara, si sono già spesi 90 miliardi di Euro (180.000 miliardi di Lire). Restano escluse le tratte ancora da iniziare, la tratta internazionale Torino-Lione e il ponte sullo stretto di Messina.

Il denaro in parte è stato fornito dallo Stato, in parte è stato anticipato da un pool di banche, le quali lo hanno dato, come farebbero verso un qualsiasi privato, a prestito dietro corresponsione di un interesse adeguatamente remunerativo e, ovviamente, sotto garanzia dello Stato, onde non correre nessun rischio. Di questo prestito stiamo attualmente pagando gli interessi intercalari e a partire dal 2009 e per trent’anni effettueremo la restituzione con un rateo annuo dell’ordine di un paio di miliardi di Euro (4.000 miliardi di Lire) a carico dell’erario.

Si tratta, come si vede, di una cifra comparabile con l’entità delle “manovre finanziarie” che di anno in anno affliggono il nostro difficile bilancio e, ricordo, ancora non sono conteggiate le opere previste ma non ancora in cantiere, come i tunnel della Val di Susa.

 

Considerata la dimensione rilevantissima dell’investimento e dello sforzo economico necessario e concentrato solo su un paio di dorsali completamente nuove è chiaro che poi diviene estremamente difficile reperire i fondi necessari per mantenere in condizioni di adeguatezza ed efficienza tutto il resto della rete, cioè la totalità delle ferrovie attualmente in esercizio. Di qui una rete di cui un terzo è tuttora non elettrificato o a binario unico, problemi, ritardi, locomotori guasti che vengono riparati con pezzi prelevati da altri locomotori, cimici nei vagoni e chi più ne ha più ne metta.

 

A metà degli anni ’90 comunque è ormai evidente ed accettato che il servizio passeggeri non potrà essere sufficiente non solo per ammortizzare l’investimento, ma nemmeno per assicurare l’equilibrio (o un tollerabile squilibrio) nella gestione ordinaria delle nuove linee. È a questo punto (e solo a questo punto) che il ceto dirigente e proponente “scopre” le merci e diventa… ambientalista. “Le nostre strade e autostrade sono invase dai TIR che provocano incidenti, inquinamento, sprechi… Le merci debbono viaggiare in ferrovia!” Messo in secondo piano il primo, ecco trovato un nuovo problema di cui il TAV, comunque già iniziato, dovrebbe essere la soluzione.

In effetti il trasporto ferroviario di merci nel nostro paese è poca cosa. I numeri cambiano a seconda di come si conteggiano i flussi, ma diciamo che, nell’interpretazione più favorevole, la frazione che viaggia su rotaia è solo il 17% del totale. Nettamente meno, ad esempio, che in Germania dove si supera il 25%; è vero che in quel paese vi è un gran traffico di attraversamento da frontiera a frontiera che non trova riscontro in Italia, per cui le due situazioni non sono del tutto comparabili, ma il divario rimane comunque cospicuo. Parrebbe che questa volta, sia pur tardi, il problema sia stato azzeccato.

 

Ancora una volta il grande pubblico, in assenza di informazioni adeguate, è indotto a fare delle valutazioni semplificate e ad immaginare che le linee ad AV toglieranno i TIR dalle strade nel prossimo futuro. Di nuovo dobbiamo provare a fare qualche ragionamento e a richiamare qualche dato. Le merci per cui il trasporto ferroviario, purché sia efficiente, è appetibile e competitivo con quello su strada sono quelle che si movimentano in grandi quantità e/o che debbono compiere un tragitto relativamente lungo (qualche centinaio di km). Non è difficile rendersene conto se si pensa a come avviene il trasporto merci per ferrovia. Innanzitutto non si tratta di comprare il biglietto e salire su un treno che rispetta un certo predefinito orario, come per i passeggeri. I convogli merci debbono essere formati e si muovono quando sono completi; questo solo fatto ci dice che perché una quantità di merce possa viaggiare con tempi ragionevolmente certi occorre che sia grande. Per intenderci: i pacchi postali viaggiano sui treni passeggeri. Ciò detto consideriamo le operazioni da compiere per una spedizione ferroviaria. Lo spedizioniere deve caricare la merce su camion, che debbono percorrere distanze che possono essere anche di qualche decina di km per raggiungere uno scalo ferroviario; nello scalo la merce deve essere trasbordata dal camion al treno; il convoglio deve essere costituito e quando è completo finalmente si muove e raggiunge un altro scalo; nello scalo di arrivo la merce deve essere nuovamente trasbordata su camion, che poi percorreranno qualche decina di km fino alla destinazione finale (grossista, industria, altro…). È chiaro che la complessità delle operazioni, anche in presenza di ferrovie perfette, fa sì che quando le quantità corrispondono a pochi camion per volta e la distanza totale tra origine e destinazione è non più di 200-300 km l’intero tragitto viene compiuto su strada. Insomma, nel caso delle merci, a prescindere dalla velocità del treno, la ferrovia può risultare competitiva solo per la lunga percorrenza e il traffico commerciale di lunga percorrenza nel nostro paese è non più del 30% del totale. Certo è molto di più del 17% citato prima, ma attenzione a non farsi incantare da miti e chimere che potrebbero far sognare percentuali dell’ordine dell’80% o più.

 

La situazione della Valle di Susa è un poco diversa perché il traffico merci che la attraversa è essenzialmente internazionale, quindi normalmente di lunga percorrenza, e la ripartizione modale attuale corrisponde ad un del flusso su rotaia pari al 27% del totale. Ci sono però altre considerazioni di ordine generale che non sto a fare perché ne parleranno altri.

Chiariti i limiti del trasporto ferroviario, vediamo se l’AV sia un modo per incrementarne comunque l’utilizzo commerciale. Quando si parla di alta velocità per le merci, tecnicamente ci si riferisce a convogli pesanti che dovrebbero viaggiare a 150-160 km/h sulle stesse linee su cui si muovono i leggeri treni passeggeri che vanno a 300 km/h. Già dalle considerazioni svolte più sopra si evince come per le merci la velocità di punta del treno sia del tutto marginale. In effetti la velocità commerciale, cioè il rapporto tra lunghezza del percorso e tempo lordo del viaggio (soste incluse), è in Italia per le merci di 19 km/h.

Questo basso valore non dipende certo dalla lentezza dei treni, ma dal fatto che i convogli sono spesso e a lungo fermi negli scali: per comporre e scomporre i treni, per lasciar libere le linee per il fitto traffico dei treni passeggeri, per inefficienza logistica. Un raddoppio della velocità commerciale sarebbe un evento rivoluzionario, ma potrebbe ottenersi essenzialmente eliminando molte soste e riducendo drasticamente la durata di altre; la velocità materiale del treno è del tutto irrilevante. D’altra parte la drastica riduzione dei tempi morti può ottenersi con una migliore e più moderna gestione degli scali, ma soprattutto, se (se) il flusso di merci è tale da giustificare l’investimento, realizzando delle linee dedicate alle sole merci, linee che non hanno nessun bisogno di essere particolarmente veloci. Questa è sostanzialmente la soluzione in atto negli Stati Uniti dove i mitici one mile long trains viaggiano, con una velocità commerciale di quasi 60 km/h, su linee lungo le quali non incontrano mai l’intralcio di treni passeggeri, e vanno da costa a costa praticamente senza fermarsi mai.

 

Questa è la soluzione da perseguire se si vuole rendere la ferrovia appetibile alle merci, ma una volta di più la strada imboccata in Italia è diversa: l’idea è quella di usare una stessa linea ad Alta Velocità sia per i passeggeri sia per le merci. Non essendoci nessun ragionevole motivo per far correre le merci a 150 km/h, la ragione vera della scelta sta nell’aver comunque deciso di fare la linea AV, aver constatato che coi passeggeri il passivo sarebbe inaccettabile e sperare di recuperare qualcosa grazie alle merci. Visto però che il trasporto merci su linea speciale e ad alta velocità costerebbe comunque parecchio di più che su linea normale, tanto più che sarebbero necessari dei carri adatti ben diversi da quelli oggi in circolazione e che sarebbero gli spedizionieri a doverseli procurare, non è chiaro come i clienti potrebbero essere indotti a preferire la pretesa superferrovia rispetto alla ferrovia normale o alla strada.

Comunque sia, l’idea di far circolare merci e passeggeri sulla stessa linea AV è sostanzialmente una sciocchezza tecnica. In primo luogo non c’è bisogno di essere ingegneri ferroviari per capire che la circolazione su un medesimo binario tanto di treni leggeri a 300 km/h che di treni pesanti a 150 km/h pone dei problemi. L’unico modo per evitare che gli uni intralcino gli altri è quello di suddividere la giornata in fasce orarie dedicate o solo al traffico di persone o solo a quello delle merci. In questo modo è chiaro che la portata complessiva della linea si riduce sia per gli uni che per le altre. La massima portata si ottiene, a parità di altre condizioni, quando esiste un sistema di arresto di sicurezza automatico (blocco mobile) e tutti i convogli viaggiano alla stessa velocità (si dice ‘omotachicità’). Oltre a questo, che è un problema di gestione ottimale della linea, vi è poi la questione dell’usura e della manutenzione dei binari. I treni merci ‘veloci’ di cui si parla possono essere da 1600 ton l’uno, mentre quelli passeggeri (che viaggiano a velocità doppia) sono leggeri come aerei che si muovono sulla superficie terrestre. È evidente che i treni pesanti producono una usura molto più marcata sulla linea e d’altra parte i treni leggeri e veloci hanno costantemente bisogno di binari in perfette condizioni, per assicurare un viaggio sicuro e confortevole. Tutto questo pone l’esigenza di una manutenzione sistematica, continuativa e ovviamente costosa. In base però al modello d’esercizio per fasce orarie che occupano tutto l’arco delle 24 ore, per la manutenzione sostanzialmente non c’è spazio; l’ipotesi di RFI (non si può dire molto di più che ‘ipotesi’) è quella di effettuare la manutenzione di notte a binari alterni per non interrompere il traffico: su un binario si fa manutenzione mentre l’altro rimane in esercizio. Una vera acrobazia.

 

Vi sono ancora altri aspetti più di ‘dettaglio’, come l’elevazione dei binari in curva (dislivello tra il binario esterno e quello interno) che è diversa per i treni da 150 km/h rispetto a quella per i 300 km/h. Mi pare comunque che basti.

Sono pochissimi e limitati gli esempi di tratte AV ad esercizio misto e si trovano essenzialmente in Germania, dove stanno dando risultati ampiamente insoddisfacenti. Va aggiunto, per esempio nel caso della Würzburg-Hannover, che la linea è praticamente doppia per fornire un certo numero di ‘corsie di sorpasso’ che consentano la compresenza (parziale) di treni veloci e treni più lenti.

In Francia sulle linee del TGV viaggiano esclusivamente treni passeggeri e di notte i convogli non circolano, mentre invece si fa la manutenzione.

Queste argomentazioni non mi pare che richiedano una preparazione tecnica particolarmente sofisticata per essere comprese; basta l’ordinario buon senso. L’ordinario buon senso sembra però non aver corso quando la decisione è ‘politica’, anche se essa compromette, come abbiamo visto, decenni di esercizi finanziari futuri e quindi la possibilità di investimenti diversi nel sistema dei trasporti come in qualità della vita. L’entità complessiva degli investimenti per il TAV, in corso o futuri (la più grande opera pubblica della storia nazionale), è tale da impegnare per un tempo molto lungo una percentuale del bilancio dello stato confrontabile con quanto destinato alla ricerca e all’innovazione, ed è per altro risaputo che i nostri investimenti in ricerca sono inadeguati e comunque al di sotto della media europea. Innovazione e ricerca portano con sé competitività economica e progresso, ma vi è ben poco di tecnologico nelle linee ad AV. Si tratta sostanzialmente di ‘cemento e tondino’, grandi cantieri, scavi, movimento terra… I paesi che hanno una funzione guida dell’economia mondiale primeggiano soprattutto nella produzione di idee in settori a scarso contenuto materiale e elevato contenuto concettuale, in campi come le comunicazioni (quelle via etere o via cavo), i sistemi intelligenti, i nuovi materiali, le nano- e bio-tecnologie… Da noi le aziende chiudono e l’attività dominante che le sostituisce è quella della cantieristica, costruzione di edifici e manufatti territoriali ovunque. Le risorse disponibili vengono in massima parte congelate, anzi, cementificate, in edifici e ‘infrastrutture’, accentuando il declino connesso con una economia bruta e arretrata con cui si identifica gran parte del ceto dirigente del paese.

 

Non ho in pratica detto nulla sul merito del problema della Val di Susa, perché altri lo faranno nel seguito. Voglio però partire da quel movimento per svolgere qualche considerazione. Il TAV in Valle di Susa è un caso particolare del disegno generale di cui ho parlato finora. Caso particolare con peculiarità sue proprie legate alla storia e alle caratteristiche del territorio, che è stato da sempre un luogo di transito di flussi internazionali di cose e persone; queste peculiarità non contraddicono, se mai rafforzano, le osservazioni critiche già svolte. Ciò che però è assolutamente specifico della Val di Susa oggi è l’essere divenuta il luogo in cui è esplosa una contraddizione che cova sotto la cenere in molti altre parti del Paese (e non solo) e che qui è emersa prepotentemente, creando sorpresa e sconcerto fra i distratti e arroganti assertori di uno sviluppo senza alternative, spacciato come ‘progresso’. Divenire l’elemento visibile della contraddizione ha fatto e sta facendo della Val Susa e della sua gente un simbolo di qualcosa di molto più vasto e profondo dell’opposizione ad una specifica opera pubblica.

Nonostante le perentorie e ‘indiscutibili’ asserzioni di tanti che ‘contano’ i quali, in base ad un non-si-sa-su-che fondato principio di autorità, dichiarano che il ‘progresso’ coincide coi grandi cantieri, ormai moltissima gente normale trova che progredire vuol dire andare, noi e le generazioni future, verso condizioni migliori, mentre però percepisce una palese contraddizione tra quanto le viene proposto/imposto e la qualità della vita propria e dei propri figli. Non si tratta più ora di qualche intellettuale o di qualche sognatore. Oggi (non un secolo fa, ma oggi  ) molti che, lavorando, si sono guadagnati condizioni ragionevoli di vita e che includono in tali condizioni anche il contesto in cui vivono (se vogliamo: ciò che ne resta) trovano che non vi sia nessun miglioramento né per sé né per i propri figli nel trasformare la valle in un grande cantiere per 15 e più anni. La predicazione di futuri vantaggi, vaghi, mitici e (aggiungo io) privi di credibili fondamenti non scalza per nulla la percezione del contrasto tra la realtà e le chiacchiere. Tanto più che, dietro il fumo delle parole, i grandi cantieri, oltre ai disagi e ai guasti economici e territoriali, degli effetti immediati e concreti li producono per coloro che li gestiscono: concentrazione di grandissime risorse pubbliche, quindi di potere reale, in poche mani sottraendole ad altri usi che potrebbero dare molti meno ‘effetti collaterali’ e molti più vantaggi per tutti.

 

Dietro e intorno alla Valle di Susa, dove il sovraccarico provocato da decenni di promesse di sviluppo e di guasti concreti, ha prodotto la sollevazione che conosciamo, esiste e chissà che non cominci ad acquistare crescente consapevolezza di sé, un disagio e una percezione di inganno di fronte ad esempio alla valanga di edificazioni (di cui per altro molti di coloro stessi che ora sono a disagio possono avere usufruito in passato) da cui le amministrazioni di tutt’Italia stanno lasciando travolgere il territorio. Insomma si fa strada la sensazione che in questo modo non si stia andando verso una condizione di vita migliore, ma verso una peggiore. L’idea che per stare meglio si debba stare peggio è sempre meno convincente e, magari in modo confuso, si comincia a pensare che nella nostra economia e nel modo di gestire la cosa pubblica ci sia qualcosa di sbagliato e che occorra cambiare rotta.

 

Il punto è: il seme del dubbio che si manifesta in modo evidentissimo in Valle e alberga ormai un po’ dappertutto quand’è che contagerà anche il ceto politico?