Marcello Striano

Agricoltura ed ipotesi
di sviluppo sostenibile
in Valle di Susa

MELLI edizioni - Borgone Susa (To), febbraio 2006

pp. 120

prezzo: 15.00 €

 

 

Marcello Striano, nato a Torino il 25 maggio 1976, svolge la professione di agronomo in Valle di Susa, si occupa di agricoltura di montagna e rivalutazione dei prodotti agricoli montani.

 

Non sono le autostrade, l'alta velocità o capacità che sia, i capannoni a garantire sviluppo e crescita economica, ma un uso equo e consapevole delle risorse naturali che normalmente sono presenti nel territorio. Chi predica a favore delle infrastrutture e dell'industria, lo fa solo perché lui stesso è vittima di una politica fallimentare iniziata in passato e che adesso non ha via di uscita se non si attuerà una forte inversione di tendenza, con alti costi che essa comporterebbe.

Non conviene infatti, nel breve periodo, attuare dei cambiamenti di politica economica, poiché per chi la controlla attualmente, i costi sono molto elevati.


 

 

Prodotti valsusini

per consumatori intelligenti

 

L'agricoltura valsusina sta riconquistando, da alcuni anni, livelli di dignità che appartengono ad un glorioso passato.

Pur in un quadro di crisi generalizzata che il settore sta attraversando e in un momento di scarse risorse finanziarie, alcuni interventi mirati di valorizzazione del prodotto tipico hanno contribuito a dare un po' di ossigeno al comparto.

Nelle aree deboli afflitte da una marginalità non solo economica ma anche sociale, culturale ed infrastnitturale, si sono utilizzati per troppo tempo forme di sostegno pubblico disperso a pioggia a causa dell'enorme frammentazione degli interventi.

Finalmente oggi si è capito che uno sviluppo durevole non può basarsi su interventi settoriali ma deve dare la priorità ad iniziative promosse autonomamente dalle stesse comunità rurali valorizzando le risorse agricole e forestali, ma anche turistiche ed artigianali.

In valle l'iniziativa pubblica è diventata animazione dello sviluppo, supporto tecnico e formativo, sostegno nella valorizzazione dei prodotti. L'opinione pubblica deve però conoscere maggiormente gli aspetti positivi che un'agricoltura montana come la nostra quotidianamente realizza.

Quest'agricoltura è chiamata ad assumere più ruoli:

-          economico, in quanto deve essere capace di fornire reddito a chi lavora la terra consentendo la pluriattività

-          paesaggistico, perché deve contribuire a mantenere intatte le caratteristiche di un territorio che da sempre è stato modellato dall'attività dell'uomo

-          ambientale, utilizzando forme di la lavorazione ecocompatibili

-          sociale, contribuendo a mantenere una popolazione attiva in zone già caratterizzate da fenomeni d'invecchiamento e spopolamento.

Perché tutte queste azioni si sviluppino in modo durevole, con un'auspicabile aumento del numero di addetti, sono necessarie efficaci forme di commercializzazione puntando sul consumo "intelligente". Il consumatore "intelligente" è alla ricerca di un prodotto di qualità che corrisponde ad un territorio di pregio. In tutti in paesi occidentali sviluppati, dopo la fase del consumismo di massa, è subentrata quella del consumo "intelligente". Il consumatore vuole essere informato su ciò che acquista, dedica più tempo alla scoperta delle qualità organolettiche e culturali del prodotto che sceglie e si presenta con maggiori possibilità economiche. E' quindi esigente e generoso ma pretende l'assoluta naturalità che associa alla tipicità e alla garanzia di sicurezza alimentare.

Dobbiamo diventare dunque produttori "intelligenti" capaci di valorizzare capitale umano e sociale delle zone di produzione.

Questo significa rendere visibili i miglioramenti aziendali e gli sforzi compiuti da più generazioni nella crescita qualitativa del nostro prodotto evidenziando sempre le peculiarità ambientali e sociali in cui lavoriamo.

Questi caratteri sono facilmente comunicabili e costituiscono un vantaggio naturale rispetto ad altre produzioni andando in parte a colmare lo svantaggio di un lavoro più oneroso, ma naturalmente la commercializzazione di questo prodotto non può seguire gli stessi canali degli altri.

Per mantenere intatto l'insieme dei caratteri valorizzanti è indispensabile far trasparire nella fase di commercializzazione l'appartenenza al territorio. Questo è lo sforzo che i produttori valsusini chiedono ai ristoratori e agli operatori commerciali che vogliono effettivamente e seriamente parlare di tipicità. Se questa unione d'intenti non si affermerà sarà necessario percorrere maggiormente la strada della commercializzazione diretta. Quest'ultima potrebbe essere la forma più adatta di distribuzione verso il consumatore "intelligente". Attirando l'acquirente fino all'azienda produttrice si finisce anche con il vendere una "fetta" territorio e un po' di quel capitale umano e sociale che è inimitabile.

In quest'ottica, nel 2005, è stata costituita la Cooperativa Susa Galupa. Essa si occupa della commercializzazione dei prodotti degli associati garantendo una larga e variegata offerta di prodotti tipici. Unirsi per presentare e commercializzare è un segnale di vitalità ritrovata per continuare a garantire quel servizio unico che l'agricoltore svolge sull'ambiente.

 

Giancarlo Martina

Presidente Soc. Coop. Susa Galupa

   


 


La terra ha musica per coloro che ascoltano

(W.Shakespeare)

 

Per Montagna Nostra, Associazione ambientalista dell'Alta Valle Susa, la pubblicazione di un libro sull'agricoltura, in montagna, in questa valle, è motivo di sorpresa e grande soddisfazione.

L'attività tradizionale plurisecolare del lavoro della terra in Alta Valle è stata spazzata via - fatti salvi i pochi coraggiosi che hanno resistito sino ad oggi - a partire dal dopoguerra, anche se alcune avvisaglie provenivano già dall'inizio del secolo XX. Umiliata, soffocata, sostituita, soppiantata dai nuovi modelli di lavoro ed economia che sono sopraggiunti sul territorio: apparentemente luccicanti, ricchi, meno faticosi, più facili, forieri di un inatteso nuovo generalizzato benessere. Il turismo.

Perdendo la cultura alpina legata all'agricoltura abbiamo perso molto. Abbiamo perso le nostre radici. E sul "vuoto" che è rimasto si è impiantato, anche da noi, soprattutto da noi, il modello che non saprei definire in altro modo che "consumistico".

E dopo decenni di sviluppo di questo modello ci accorgiamo che il nostro territorio, il nostro ambiente, l'aria che respiriamo sono diversi, hanno subito pesanti compromissioni. Abbiamo "consumato" anche il territorio. Per fare posto alle case, prime o seconde case che siano. Siamo "terra di conquista" di carovane di TIR e di fautori di buchi nelle montagne, autostrade, linee ad alta velocità. Di chi gioca con la matita sulle carte e disegna lo sconvolgimento del territorio, dicendoci che è il progresso!

Siamo ancora in tempo per evitare di consumare anche quello che resta. Per lasciare quella parte di territorio non ancora compromessa alle future generazioni. In modo che possano beneficiare anche loro di montagna, laghi, boschi, aria pura, fiori, sorgenti, farfalle e notti stellate.

Ed il libro di Marcello Striano indica una strada possibile.

Un altro modello. Magari non nuovo. Forse leggermente più scomodo. Basato su ritmi più lenti, in sintonia con quelli della natura. E' possibile oggi vivere di agricoltura, anche in montagna. Un agricoltura sicuramente più difficile in relazione alle diverse condizioni ambientali rispetto alle aree di pianura e di collina. Un agricoltura che non ha più come fine ultimo l'aumento della produzione ma che può contribuire - riappropriandosi dell'antico, dimenticato ruolo di "presidio del territorio" - alla salvaguardia ambientale ed alla difesa idrogeologica; pratiche agronomiche che vengono definite, anch'esse, sostenibili ed ecocompatibili caratterizzate da una rinnovata attenzione per il territorio, l'agriturismo, le produzioni biologiche ed i prodotti di qualità.

Ci sono ancora oggi tracce nel DNA di alcuni altovalligiani di queste radici profonde nella terra. Oltre ai "coraggiosi" che hanno continuato nell'allevamento del bestiame e nella produzione agricola ci sono i molti, che per il piacere di farlo e non sicuramente per il ritorno economico che ne deriva, continuano a piantare le patate in alto, perché - affermano - sono più buone. Altri hanno fatto rivivere vigneti in posti impossibili. Altri dedicano premure affettuose ai loro orti.

Certo che tra "passione hobbistica" e vera e propria opportunità di lavoro c'è molta differenza. Ma se in Italia, il cui territorio è per oltre il 53% montano, sono presenti oltre 473 mila aziende agricole montane vuol dire che possono trovare spazio anche in alta valle.

E una scelta ancora difficile, piccoli numeri che non stravolgeranno, per ora, il tessuto socioeconomico dell'alta valle. Ma sarebbe un segnale estremamente importante di sensibilità, attenzione e rispetto. L'inizio di un cambiamento di tendenza.

Un grazie ai "vecchi" ed ai nuovi agricoltori della valle!

Walter Re

 Presidente Associazione Montagna Nostra

Associazione per la tutela e la valorizzazione della qualità

del patrimonio naturale ed ambientale dell'Alta Valle Susa

 

 



Amare la terra, rispettare la natura

 

Ciò che più colpisce nello studio di questo agronomo è la passione per la sua terra, la certezza che può rinascere se sapremo ritrovare l'attenzione giusta per la montagna; non quell'interesse superficiale del "consuma e getta" che contraddistingue i giornalisti d'assalto dell'instant book. Qui si dicono altre cose, si mettono in evidenza radici profonde di una tradizione che forse oggi, grazie anche al popolo NO TAV, può nutrire una ripresa consapevole.

Non c'è mai in queste pagine una visione romantica del bel tempo che fu. Piuttosto si guarda in faccia la realtà di oggi e i guasti che un modello di sviluppo di corto respiro ha lasciato, come spreco di risorse materiali e culturali. L'attenzione per i formaggi o per i vitigni, per la coltivazione del castagno, passa attraverso una presa di coscienza complessiva che rimette al centro la fùsis, i suoi tempi e i suoi soggetti. Perché la famiglia contadina è rimasta come valori, con la sua pazienza e la sua tenacia, come un fiume carsico, anche dentro il caotico sviluppo industriale. E oggi che siamo al capolinea di un suicidio collettivo, provocato dall'ingordigia e dall'ignoranza della complessità dell'antropizzazione, dobbiamo ripartire di lì, fondare sulla tenacia e sulla saggezza dei nostri maggiori le opportunità del rilancio.

La nostra Valle era, alla fine dell'800, una delle zone più industrializzate del Piemonte; l'acqua soprattutto, il "carbone bianco", era stata determinante per l'insediamento dei cotonifici. Anche la Bauchiero di Condove, a inizio del '900, aveva sollevato speranze, modernizzato abitudini di vita e modificato urbanisticamente il fondovalle. La montagna di Condove, ad es., che fino a quel momento era assai più popolata del capoluogo, piano piano si era svuotata di residenti. E così anche la varietà del nostro ambiente montano, sia sotto il profilo vegetale che animale, che qui ben si rileva come fosse unico all'interno di tutto l'arco alpino occidentale, perse colpi.

Quasi due secoli fa il prof. Maggiorino Assandro, veterinario provinciale e insegnante di scienze naturali nelle scuole tecniche di Susa, aveva avviato una precisa indagine sulle tre zone del nostro territorio, della pianura o della vite; della collina o della patata; della montagna o del pascolo.

Soprattutto aveva individuato la produzione vinicola come la più significativa, a fronte di meno decisive produzioni che pure erano alla base di una economia di sussistenza.

Il contadino se voleva vivere doveva diventare all'occorrenza anche scalpellino, minatore, muratore, falegname e poi ferroviere e anche operaio. Quasi in ogni famiglia dei nostri montanari c'era un lavorante stagionale, che migrava d'inverno verso la Francia, per fare le "campagne". E il salario delle ragazzine, impiegate come "bucette" sporgifilo nei cotonifici, integrava un reddito sempre calcolato su base famigliare, mai individuale.

Nello studio che qui viene presentato, quel mondo è solo più sullo sfondo, ma il dialogo ininterrotto dei nostri nonni e bisnonni con quella dura realtà di sopravvivenza si ripropone, ad un livello più radicale; perché oggi non possiamo più sbagliare. Ne va della salute di noi stessi, della salvezza della terra che ci ospita e che non abbiamo a sufficienza saputo rispettare.

Non ci sarà nessun "gusto Valsusa" se non si vincerà la battaglia contro l'inquinamento, se non si fermerà la mafia delle grandi opere, inutili e dannose per le generazioni future.

La ripresa degli alpeggi, il nuovo rispetto che viene rivolto al contadino, passa certo verso una attenzione speciale per la "qualità della vita", che comincia a mettere in secondo piano un accrescimento puramente quantitativo della produzione. Ma i furbi esistono ancora e allora molte risorse che dovrebbero davvero sostenere i giovani che investono sul ritorno alla terra, o che più semplicemente non la abbandonano, vengono dirottate verso finti investimenti. Non solo; si gravano contadini e montanari di vincoli non razionali per una adeguata ripresa della loro iniziativa.

E' possibile uno sviluppo sostenibile se si dà il via libera, attraverso le scorciatoie dissennate della legge obiettivo, a progetti faraonici che non tengono conto delle concrete previsioni dei flussi di traffico, del sicuro esaurimento del petrolio, se si saccheggia, per quindici giorni di vetrina olimpica, grande parte del patrimonio boschivo e non si provvede al riordino dei corsi d'acqua e alla tutela imprescindibile delle sorgenti?

La questione del reddito e delle nuove opportunità che si presenterebbero alla Valle, sono affrontate dal nostro agronomo Marcello con il taglio di una "osservazione partecipante" che si fa davvero, come auspicavano i migliori storici del passato, "penetrazione simpatetica" rispetto alla natura e al lavoro dell'uomo. Giustamente si scommette sul legame ambiente-turismo-agricoltura, che non può prescindere però dal quadro politico, che ignora anche i più elementari bisogni delle nostre comunità e ne falsifica le aspettative.

Oggi l'intervento politico si avvita su se stesso in estenuanti confronti autoreferenziali, non tiene minimamente in conto i saperi concreti delle popolazioni locali e ignora le conoscenze preziose, anche orali, degli abitanti dei nostri villaggi. Cosa può venir fuori dall'arroganza coniugata all'ignoranza del territorio e della sua storia?Una diffusa incultura dell'usa e getta, che non si documenta mai e che dilapida le risorse destinate allo studio del territorio in convegni insulsi e in vetrine informative del nulla, non può certo produrre sensibilità ai problemi veri della nostra gente. Occorre che il contadino, diffidente per natura e paziente per bontà innata, che la fatica del lavoro spontaneamente alimenta, sappia da se stesso trovare una strada, di emancipazione dalle arretratezze strutturali di un mondo che non è mai stato il suo. La mediazione con la terra deve ritornare a vivere attraverso la mediazione con il suo fratello artigiano, operaio, artista, per promuovere prima di tutto un vivente esempio di alternativa possibile, sia sul piano dell'economia, sia ancor più sul piano della salute, mentale e fisica.

Occorre ripensare forme di autofinanziamento cooperativo che affondino le loro radici in un nuovo e più moderno solidarismo sociale, che non vanifichi le risorse e che sostenga i giovani attraverso proposte lavorative stabili, cosa che i nuovi modelli di sviluppo, nel terziario avanzato e nell'industria, non assicurano più. L'agricoltura può di nuovo diventare, con i suoi tempi lunghi di impiego delle energie umane, uno scenario più stabile sul piano della costruzione integrale di un progetto di vita. Alla terra bisogna ritornare con intelligenza, facendone il perno di uno sviluppo culturale in senso forte, che guidi con saggezza le trasformazioni e soprattutto la conservazione del territorio che abbiamo ricevuto in prestito. E questo Marcello lo sa, con una saggezza che è raro trovare tra i giovani. Certo possiamo imparare dal Trentino, e anche dalla Valle d'Aosta, ma soprattutto dobbiamo imparare dagli errori già commessi o accettati per pavidità o indifferenza. E' ora di "camminare eretti" e il popolo NO TAV comincia a crederci.

 

Gigi Richetto