L’ITALIA DEI LAVORI


di Antonio Tamburrino da Il Mulino 1/2007 RIVISTA BIMESTRALE DI CULTURA E DI POLITICA - 03-06-2007

 

Mentre comincia ad affermarsi l’idea di un modello di sviluppo radicalmente nuovo, che rifiuta alla base il nesso tra sviluppo e uso di risorse e mette in discussione la stessa necessità di infrastrutture materiali sempre più grandi, anche sul fronte delle grandi opere il governo deve fare i conti con l’eredità lasciata dalla precedente legislatura. Ma non sembra distaccarsene in maniera significativa.


Quali novità ha portato il Governo Prodi nella politica delle infrastrutture? Il precedente esecutivo aveva esordito con idee chiare: per far ripartire l’Italia, bisognava realizzare subito strade, autostrade, tunnel, porti, ferrovie. La “Legge-Obiettivo” aveva introdotto poteri speciali: abolita la programmazione, si passava direttamente alla Individuazione delle opere da realizzare; e poi subito via ai cantieri, senza più perdite di tempo con le amministrazioni locali, con le associazioni ambientaliste, con i comitati di cittadini.

Obiettivi: intanto un balzo immediato dell’1 ÷ 2% del PIL e poi, in prospettiva, un Paese sempre più brulicante di TIR, di auto, di treni, di navi. L’opera simbolo era il Ponte di Messina, un progetto di ambizioni planetarie. L’opposizione aveva bocciato tutta la strategia berlusconiana, ritenendola verticistica nel metodo decisionale, e ambientalmente non sostenibile nella sostanza.

Dal nuovo Governo ci si aspettava un completo ribaltone, a partire dall’abrogazione della “Legge-Obiettivo”. E invece, finora, non c’è stata la minima soluzione di continuità. Anzi ci si sta adoperando per fare di meglio e di più. Per la verità, all’esordio c’era stata una decisione di forte rottura: la cancellazione del Ponte di Messina. Ma la sua interpretazione è sembrata subito ambigua. Infatti né la maggioranza aveva espresso manifestazioni di giubilo, né l’opposizione aveva organizzato barricate, nonostante si trattasse di una decisione storica per entrambi gli schieramenti. La mancata reazione di Berlusconi poteva avere una spiegazione. Aveva davvero creduto di poter realizzare il mito del “ponte sospeso più lungo del pianeta”, per consegnare il suo nome alla storia. Ma poi aveva dovuto prendere atto che nel mondo non c’era né una banca né un’impresa disposta a rischiare un centesimo su quel progetto. Per cui la caduta del mito per avversa mano politica doveva essere stata per lui un sollievo.

Invece la mancata esultanza dei partiti del “No Ponte” sembrava ingiustificata. Intanto, già era sembrata eccessiva la fretta del Governo nel cancellare un progetto, che pure aveva diversi fautori anche nella stessa maggioranza, senza nemmeno aver esplorato la possibilità di una soluzione diversa. Negli ambienti internazionali era opinione diffusa che, mentre il “Ponte Berlusconi” era tanto ambizioso quanto tecnicamente ed economicamente improponibile, esistevano altre soluzioni, tipo il ponte di Corinto, che avrebbero potuto risolvere in maniera brillante, economica ed ambientalmente sostenibile la condivisibile esigenza di realizzare un collegamento stabile fra la Sicilia e la Calabria.
Purtroppo, il tragico incidente dello speronamento del traghetto dello scorso gennaio ha reso evidente che, almeno dal punto di vista della sicurezza, il non fare nulla non è certo la migliore soluzione. Come pure è rimasta del tutto inesplorata l’ipotesi che un collegamento stabile non sia l’anello strutturale destinato alle grandi movimentazioni di merci su tratte internazionali, ma sia l’elemento urbanistico innovatore per avviare un nuovo tipo di conurbazione fra tutte le città dello Stretto; con straordinarie prospettive per una nuova qualità della vita. E allora perché il Governo, tra il fare e il non fare, non aveva voluto esplorare la via del fare meglio?


Il “Paese – Piattaforma”

Anche Prodi sapeva bene cosa fare, pur se, sornionamente, aveva evitato di sbandierarlo subito a “Porta a Porta”. Da Presidente della Commissione Europea, aveva preso parte alla stesura dell’Agenda di Lisbona del 2000 per lo sviluppo e la crescita dell’occupazione. Per realizzarne gli obiettivi, aveva poi, sempre da Presidente, approvato la pubblicazione del “Libro Bianco” del 2001. In esso si stabiliva la centralità della politica dei trasporti e se ne disegnavano gli sviluppi strategici a livello continentale.

Per quanto riguarda le dinamiche della domanda, per il 2010 si puntava ad un incremento del 50% per le merci, e del 35% per i passeggeri, con un tasso di crescita medio annuo rispettivamente del 4% e del 3% circa. Quei valori molto elevati erano giustificati da un’idea di sviluppo basata essenzialmente nella crescita della produzione.
Si è realizzata questa idea? A giugno 2006 l’Unione Europea ha cercato una risposta con il rapporto di medio termine. Ebbene, mentre l’aumento del PIL si è mantenuto entro le aspettative, la domanda di trasporto è rimasta clamorosamente al di sotto delle previsioni. Infatti, per le merci l’aumento non è andato oltre il 2,5%, mentre per i passeggeri non è neppure arrivato all’1,5%, con valori generalmente più contenuti per i Paesi più avanzati. Questi scostamenti sono estremamente importanti perché forniscono le prime conferme, a livello di Unione Europea, di un modello di sviluppo radicalmente nuovo. Esso, già da tempo emerso, studiato e politicamente incoraggiato in alcuni Paesi del Nord, ha come base rivoluzionaria il “de-linking”, cioè la disconnessione fra sviluppo e uso di risorse. Le conseguenze possono essere tali da ribaltare convinzioni fino a ieri ritenute granitiche, a cominciare dalla necessità di costruire infrastrutture materiali sempre più grandi e sempre più capillari su tutto il territorio. Rientrato in Italia, Prodi ha portato nel suo bagaglio il “Libro Bianco”, anche se poi forse non ha fatto in tempo a leggerne la revisione del 2006.
Dando così per definitivamente acquisita la necessità dell’Europa di dotarsi di grandi infrastrutture, si è ritenuto che l’Italia potesse trarne il massimo beneficio, attrezzandosi per assumere il ruolo di “piattaforma logistica euro-mediterranea”. E cioè: premesso che la Cina, l’India e le altre potenze emergenti dell’estremo oriente esportano quantità crescenti di merci verso il mercato europeo, e premesso che i flussi marittimi ora confluiscono praticamente tutti nei porti del Mare del Nord, la nostra missione storica deve essere quella di invertire la situazione: dobbiamo ampliare e attrezzare i nostri porti, soprattutto quelli del Sud, per le grandi navi containers; e costruire strade e ferrovie, per distribuire le merci nel Nord Italia e nel Centro Europa. Il sogno del nostro Paese sarà quello di diventare il crocevia dei traffici fra l’Oriente e l’Occidente.

Per realizzarlo, l’Italia ha già firmato un accordo strategico con l’Egitto e la Cina: si amplierà il canale di Suez, e poi i 2/5 del traffico cinese per l’Europa, che oggi circumnaviga l’Africa perché le navi sono troppo grandi, finiranno direttamente nel porto di Gioia Tauro, da cui si dirameranno grandi direttrici di traffico nazionale ed internazionale. Lì ci sarà bisogno di attrezzare un retroterra immenso. La finanziaria 2007 vi ha destinato un apposito capitolo di spesa.
Definita così la grande strategia, non è rimasto che passare all’individuazione delle singole opere.

L’Italia dei Lavori

Il ministro delle infrastrutture Antonio Di Pietro è stato molto attivo. Nel Documento di Programmazione Economica e Finanziaria 2007 ha infatti previsto un “Allegato infrastrutturale”, che non contiene altro se non l’elenco delle opere già approvate dal precedente Governo. Per Di Pietro le opere non vanno viste né da destra né da sinistra: se sono utili vanno fatte e basta. Dalla sua analisi risulta che tutte le opere approvate da Berlusconi siano utili; ma non sufficienti. E così il ministro, dopo appena sei mesi di governo, vara un nuovo e più grande piano delle grandi opere (www.infrastrutturetrasporti.it). L’importo è di 200 miliardi di euro, di cui 60 da trovare subito. Intanto la finanziaria 2007 ne stanzia 25.3, con un aumento di ben il 40% rispetto all’anno precedente. Si tratta di un piano davvero imponente che, a consuntivo, inghiottirà non meno di 300÷400 miliardi, a fronte dei 125 miliardi previsti da Berlusconi. Fatto il piano, il ministro si è preoccupato della sua realizzazione. Per prima cosa, essendo le strade prioritarie, con un rapido colpo di mano, ha rafforzato l’ANAS, con un ricambio generazionale. Al vertice ora c’è il Pietro Ciucci, già il braccio destro di Berlusconi nella vittoriosa battaglia del Ponte, mentre alcuni membri del consiglio di amministrazione risultano già iscritti all’“Italia dei Valori”.

Si va così costruendo, con ambizioni alte e con decisioni concrete, l’“Italia dei Lavori”: che cosa c’è di diverso rispetto alla berlusconiana “Italia del fare”? Molti più cantieri. E allora, perchè il “No” al Ponte? Nessun “No”, precisa il ministro Di Pietro, qualcuno ha capito “cancellazione”, ma si trattava in realtà di una “sospensione”. Appena verranno recuperati i soldi il Ponte verrà costruito, così come è stato progettato. E Prodi è d’accordo, avendolo già approvato quando era Presidente della Commissione Europea” (va ricordato che il Ponte, in quel periodo, venne infatti inserito come opera strategica nel Corridoio Europeo n. 1, da Palermo a Berlino). Viene dunque da chiedersi se non sia stato frutto di un malinteso l’opposizione frontale alla strategia berlusconiana. Ma su un punto le posizioni dei due schieramenti politici restano ideologicamente inconciliabili: il modo di acquisire il consenso dei cittadini.


Un consenso ragionevole

Di Pietro afferma: mai più la polizia in Val di Susa, bisogna dialogare con le istituzioni periferiche e le popolazioni locali, con gli ambientalisti finchè la ragione non prevalga. Ma quali sono i percorsi della ragione? In Val di Susa effettivamente il Governo avvia subito un tavolo di confronto. Senonchè poi il ministro, parallelamente, al ministero porta avanti l’iter di approvazione del vecchio progetto. E le richieste dei valligiani? E le proposte alternative? Inevitabilmente, si crea un po’ di confusione. Ma poi il ministro prende in mano la situazione e detta chiaramente la linea da seguire. In occasione del vertice bilaterale del 24 novembre 2006 a Lucca, dove fra Italia e Francia si ufficializza la domanda alla UE di co-finanziamento della Torino-Lione, a chi gli fa notare che le questioni locali sono ancora tutte aperte, il ministro chiarisce che “la TAV si farà anche se gli amministratori locali alla fine non saranno d’accordo. La ragione, che alla fine tutti devono capire, è che altrimenti per noi non c’è futuro in Europa”.

Si capisce così definitivamente che la nuova apertura del Governo verso la partecipazione dei cittadini consiste nel far emergere un “consenso ragionevole”. Anche nella questione del Mose, c’è stata questa apertura. Il sindaco Cacciari e molti altri cittadini sostengono da tempo che, per salvare Venezia, al posto del Mose, ci sono altre alternative che sono molto più intelligenti, economiche, efficaci e compatibili con l’ambiente. Ebbene Di Pietro effettivamente porta queste alternative al Ministero, e le fa esaminare dai suoi tecnici. I quali, essendo gli stessi che finora hanno sempre sostenuto il Mose, preferiscono non contraddirsi e, anzi, aggiungono che, poichè i lavori sono già iniziati, anche se vi fossero valide alternative, non varrebbe la pena di ripensarci, per non perdere tempo. Si fissa così un buon precedente per evitare che, anche per altri casi controversi, le cose vadano troppo per le lunghe.

Ma talvolta, per la fretta, il nuovo metodo consensuale non viene applicato integralmente. Si veda la questione del “Corridoio Tirrenico”. Il precedente governatore del Lazio, Storace, pur di realizzare un’autostrada, dopo diversi tentativi andati a vuoto, non aveva trovato altra soluzione se non quello di localizzarla in un tracciato perfettamente adiacente alla Pontina. Senonchè, siccome questa strada non si può cancellare, ma va comunque riammodernata con standard da superstrada, si era arrivati al paradosso di ipotizzare da Roma a Latina un Corridoio stradale a 8 corsie, con capacità di traffico anche maggiori di quelle dell’autostrada Roma-Napoli. Accogliendo le vaste e vivaci proteste di ambientalisti, agricoltori e comitati di cittadini contro l’inutile autostrada, l’attuale governatore Marrazzo, in campagna elettorale, si era impegnato, una volta eletto, a cancellare subito l’oscena proposta. Ma poi, come dice Di Pietro, è emerso che le grandi opere anche se vengono da destra possono benissimo proseguire a sinistra. E così prima che i contestatori si rendano conto dell’’inversione di rotta ed chiedano un confronto, Marrazzo e Di Pietro, ringraziando Storace, decidono di proseguire per la retta via.

Ma qual è il cemento che garantisce questa granitica continuità alla nostra politica infrastrutturale?


L’ingegneria giurassica

Anche il Governo attuale sostiene che è urgente fare più infrastrutture, per competere in Europa. Purtroppo non ci si accorge che non è più solo la quantità, ma ora è sempre più la qualità a fare la differenza. Sono i costi, i tempi, la funzionalità delle nostre opere che stanno creando un “caso Italia”. Nelle costruzioni ferroviarie, i nostri costi sono costantemente oltre il doppio di quelli di Francia, Spagna, Germania. La prima spiegazione, ma non l’unica, è la commistione fra affari e politica. Fu provato nella stagione di Mani pulite. La “Legge Merloni” aveva cercato di voltare pagina, individuando con più chiarezza i ruoli e le responsabilità di politici, amministratori, dirigenti pubblici, imprese. Ma è durata poco. Il primo dietro-front si è avuto proprio con la “Legge-Obiettivo” che, per le grandi opere, anziché contrastare, ha istituzionalizzato il rapporto diretto fra i vertici politici e le grandi imprese. Poi il Codice degli Appalti, nella sua scia, ha completato la controriforma per tutte le opere pubbliche, anche le più modeste e periferiche. Così un’impresa oggi può vincere un appalto sulla base di un progetto preliminare, alle volte molto approssimativo e con ribassi spesso scandalosi. Ma tutto ciò non pregiudica nulla, perché poi è la stessa impresa a sviluppare il progetto esecutivo, cioè a decidere ciò che realmente si deve costruire ed a stabilire come e quando lo si deve fare. Ovviamente, con delle contropartite politiche.

Non si spiega altrimenti come un numero impressionante di gare viene assegnato con un ribasso superiore al 30%. In questi casi dovrebbe essere obbligatorio individuare responsabilità precise: o l’ingegnere progettista risulterà incompetente o l’impresa realizzerà un’opera di qualità scadente. Purtroppo c’è una terza ipotesi, quella sopra esposta, che è quella che più spesso si avvicina alla realtà. Tanto per farsi un’idea, il costo della TAV è lievitato, per ora, del 500%, passando da 12 a 60 miliardi di euro. E, in oltre 15 anni, da quando la TAV è partita, non c’è stato alcun ministro delle Infrastrutture, compreso l’attuale, che abbia la curiosità di sapere almeno se qualche progettista non era stato all’altezza del compito.

 La lievitazione dei costi trascina con sé inevitabilmente l’allungamento dei tempi. La Corte dei Conti ha documentato che la “Legge-Obiettivo” ha peggiorato ulteriormente la situazione. Di fatto, la fine dei lavori è spesso imprevedibile. In queste condizioni, la gestione degli appalti pubblici richiede principalmente capacità di relazioni politiche. Le grandi imprese straniere, che puntano sull’efficienza organizzativa e sull’innovazione tecnologica, se ne tengono alla larga, lasciandoci sempre più attardati nel nostro provincialismo.

Di conseguenza le nostre grandi opere sembrano appartenere all’epoca giurassica: sono enormi nelle dimensioni, per metterci più cemento, più ferro, più movimento di terra, ma sono molto modeste nel contenuto tecnologico, che non preoccupa nessuno. Insomma costruiamo archeologia infrastrutturale, dalla TAV al Mose, dal Ponte di Messina alla Metro C di Roma.

Una volta che al Ministero delle Infrastrutture è arrivato Di Pietro, cioè l’uomo di “Mani pulite”, ci si aspettava almeno la rivoluzione. Non è successo assolutamente nulla. E’ il segno che non è solo questione di uomini né di schieramenti politici. E’ quindi indispensabile un confronto con l’Europa, ma su basi del tutto diverse.


Le istituzioni partecipative

In Italia con la sindrome “Nimby” (Not in My Backyard, non nel mio giardino) si attribuisce all’integralismo ecologista ed all’egoismo localistico la sola e grave responsabilità del torpore improduttivo in cui versa il Paese. Per debellare questa sindrome si è fatto ricorso alla legislazione emergenziale. Ma dopo anni di cura la situazione, anziché migliorare, è peggiorata. E’ la cura giusta?

In alcuni Paesi del Nord Europa, si è seguito un approccio diverso. Con risultati molto positivi. Fra la Danimarca e la Svezia è stato realizzato un ponte 5 volte più lungo di quello di Messina, in 5 anni di tempo e con piena condivisione delle popolazioni locali e degli ambientalisti. La Germania ha realizzato un numero tale di inceneritori da assorbire anche le emergenze della Campania, con buoni profitti e senza proteste di piazza. La Francia sta realizzando il raddoppio del porto di Le Havre, che è il 5° d’Europa. Esso è ubicato alla foce della Senna, in un contesto ambientalmente molto delicato. Il progetto che comprende anche la ri-localizzazione di un intero ecosistema di area umida, è stato varato in tempi brevi e con unanime condivisione.

Il diverso punto di partenza è stato che la “sindrome Nimby” non è stata considerata un male in sé, ma è stata percepita come segnale che qualcosa di nuovo, e di molto importante, stava accadendo: la volontà e la capacità dei cittadini di partecipare ai processi decisionali. Di conseguenza le istituzioni non si sono arroccate, come da noi, ma sono andate incontro alla società, lungo due direttrici: a monte, aprendo la pianificazione alla società civile; a valle, strutturando un confronto costruttivo con i cittadini. Nella pianificazione è stata data piena ospitalità alla scienza, alla tecnica, all’economia, alla finanza. Sono stati costruiti obiettivi più ambiziosi e allo stesso tempo più realistici.
La Svezia ha deciso di liberarsi completamente dalla schiavitù del petrolio nel 2020. Col sostanziale contributo delle fabbriche automobilistiche, che stanno producendo ormai solo auto ibride. Da noi la pianificazione rimane un puro adempimento burocratico. La conseguenza è che per pianificare la nostra alta velocità ferroviaria non abbiamo saputo fare altro che importare la brutta copia di quella francese. Oltralpe vi si era impegnata una generazione di tecnici e di ricercatori. Per il problema dei rifiuti abbiamo fatto ancora meno. Non siamo neppure andati in Germania a studiare l’innovazione del “Dual Systeme”, cioè la separazione dei rifiuti alimentari da quelli industriali, con la conseguente gestione di quest’ultimi a totale carico dei produttori. Questa è stata la chiave di volta che, coinvolgendo il mondo delle imprese, ha rivoluzionato tutto il settore.

L’apertura delle istituzioni a valle è stata, se possibile, ancora più feconda. La vera chiave di volta consiste nella presentazione al pubblico del progetto, in maniera “non tecnica”. Inoltre ogni progetto è sistematicamente confrontato con diverse soluzioni alternative. In tempi più recenti, è stata introdotta anche l’ “opzione zero”, cioè l’alternativa di non fare nulla.

In questo modo qualsiasi cittadino, qualunque sia la sua professione ed il suo livello culturale, può realmente partecipare alle scelte delle amministrazioni, fino alla decisione radicale di azzerare il progetto proposto.
Per avere un’idea di quanto invece noi siamo lontani da questa mentalità, basti pensare che se qualche cittadino della Val di Susa osasse chiedere di rimettere in discussione l’utilità del Corridoio Lisbona-Kiev (che pure è solo una modesta favola politica) non verrebbe ricevuto neppure dall’usciere del Ministero.

Questa evoluzione delle istituzioni, da impositive a partecipative, dopo essersi consolidata in alcuni Paesi nordici, poi ha cominciato a permeare anche la legislazione dell’Unione Europea. Noi siamo andati esattamente nella direzione contraria, subendo una serie crescente di procedure di infrazioni.

La trasformazione delle istituzioni è solo la punta dell’iceberg di un’evoluzione che sta trasformando la società e il modello di sviluppo dei Paesi più avanzati.

Quali sono le più recenti innovazioni nel nostro Paese?


Crescere, crescere, crescere

Finora il Governo non ha potuto ancora avviare la realizzazione del suo programma politico, perché è stato totalmente impegnato a riportare i conti pubblici entro i parametri europei. Ma ora, finalmente, il Presidente del Consiglio, ha tracciato la rotta di legislatura ed ha fissato tre priorità: crescere, crescere, crescere. Ma per crescere bisogna prima costruire nuove e più grandi infrastrutture materiali, che ora quindi diventano le priorità nazionali. L’obiettivo finale è quello di aiutare chi è rimasto indietro. Su questa sorta di dovere etico non può esserci alcun dubbio, tanto più che l’Italia ha preso degli specifici impegni a livello comunitario. Infatti l’Agenda di Lisbona del 2000 ha legato tutti i Paesi membri all’obiettivo epocale di sradicare la povertà e di cancellare l’emarginazione sociale. E in effetti molto si sta facendo in questa direzione.

 Il 16 ottobre 2006 a Tampere, in Finlandia, si è tenuta la “5^ Conferenza sulla povertà e sulla esclusione sociale”, per fare il punto della situazione, esaminando come i singoli Paesi si stanno organizzando, quanto è già stato fatto e quanto resta ancora da fare. Per la prima volta, per misurare la povertà, non si è tenuto conto del solo parametro monetario consistente nella soglia del 60% del reddito medio, ma si sono presi in considerazione anche tutti quei beni e servizi e quei rapporti sociali che permettono di considerare un essere vivente come una persona. Ebbene, con questi criteri, il 16% della popolazione UE-25 non raggiunge la soglia minima, con un’oscillazione che tende ad abbassarsi anche sotto l’8% per i Paesi del Nord e che supera anche il 20% per i Paesi del Mediterraneo. Il dato più confortante è che la percentuale tende a diminuire al crescere della ricchezza complessiva.

Ma ciò che davvero infonde grande fiducia è che alcuni Paesi hanno preso con tale determinazione l’impegno di Lisbona che già cominciano a fissare le date di conseguimento degli obiettivi finali. Alcuni traguardi potranno essere raggiunti a partire dal 2015.

Per fare solo un esempio, la Francia, proprio di recente, ai due diritti costituzionali esistenti, quello della sanità e quello dell’istruzione, ha aggiunto un terzo diritto, quello dell’abitazione. Quest’ultimo diritto sarà goduto dalla totalità dei cittadini francesi entro il 2012, mentre le situazioni più urgenti saranno risolte già dal prossimo anno. Lo studio U.E. non fornisce l’attuale posizione dell’Italia, e, tantomeno, dà conto dei suoi programmi per raggiungere gli obiettivi finali, perché il nostro Paese non ha fornito alcun dato e non ha esposto alcun piano.

Dunque il triplice obiettivo di Prodi è pianamente condivisibile ma la tempo stesso poco credibile, perché non è sostenuto da alcuna programmazione realistica. Il fatto è che la crescita, proprio perché serve ad adempiere ad un impegno etico imprescindibile e non rinviabile, più si protrae nel tempo più diventa inefficace. Pertanto bisogna annunziare non l’inizio, ma la fine della crescita. E, per il nostro Paese, considerando il livello di ricchezza nazionale e le ulteriori potenzialità di sviluppo, l’esaurimento della crescita potrà essere collocato entro un paio di decenni, al massimo. Se così sarà, non avrà più senso mettere in cantiere grandi infrastrutture che entreranno in esercizio fra 15÷20 anni, perché, per quell’epoca, le esigenze della società saranno di natura del tutto diversa. Per dare un’occhiata a come sarà il mondo dopo la crescita, è interessante andare a vedere che cosa si pensa dell’evoluzione dei trasporti nel Regno Unito.

 
Il “Rapporto Eddington”

Da tempo il Governo del Regno Unito ha messo al lavoro un gruppo di qualificati esperti interdisciplinari, guidato da Sir. Rod Eddington. A dicembre 2006 è stato presentato il rapporto finale: “The Eddington Transport Study-The case for action: advice to Governement”. E’ interessante leggerlo, perché così come i Romani avevano inventato la mobilità, gli Inglesi hanno provveduto alla sua meccanizzazione. Inoltre l’eccentricità del Regno Unito rispetto all’Europa continentale non è dissimile per molti versi a quello dell’Italia. Pertanto il “Rapporto Eddington” anticipa molte prospettive con le quali l’Italia prima o poi dovrà pur misurarsi.

Per andare alla base dei problemi, conviene guardare ai dati relativi ai nessi fra sviluppo economico e crescita dei trasporti nel Regno Unito dal 1980 al 2005. La crescita economica, contrariamente all’Italia, è stata di tutto rispetto, perché in 25 anni è lievitata di oltre l’80%, con un valore medio annuo intorno al 3%. Nello stesso periodo i trasporti si sono comportati ben diversamente: per i passeggeri, l’aumento si è fermato al 60%; per le merci, non è arrivato neppure al 40%, cioè ad un valore che è appena la metà del PIL. Il dato che ha invece seguitato a crescere costantemente è quello dei veicoli-chilometro. Sembra un dato incorente. In realtà è di grande valore perché sta ad indicare che i trasporti di massa stanno sempre più lasciando il posto ai trasporti individuali.

Tuttavia l’indicazione decisiva è un’altra ed è quella che mostra che il rapporto fra la crescita economica e quella dei trasporti, lungi dall’essere una costante, è una variabile molto legata al tempo. Infatti per i primi anni Ottanta, la crescita economica trascina rigidamente con se i trasporti, con un rapporto di circa 1 a 1. Ma già alla fine di questo decennio, tale rapporto comincia ad indebolirsi. Poi, a cavallo degli anni Novanta, la divaricazione si fa sempre più evidente. La svolta decisiva si ha a cavallo del 2000: la crescita economica prosegue autonomamente a ritmo sostenuto, ma l’incremento dei trasporti si arresta definitivamente. E’ l’emergere del vero e proprio “de-linking”, vale a dire di una fase in cui l’economia prosegue nella sua crescita, slegandosi dagli aspetti materiali che prima la caratterizzavano.
Confesso di aver letto con piacere questi dati perché essi confermano, con valori aggiornatissimi, l’analisi da me proposta in un precedente intervento su questa stessa rivista (Il Mulino 1/2006), sulla base di dati al 2002, aggregati a livello europeo. Eravamo allora davvero allo stato nascente del de-linking. Quindi ci poteva essere il rischio di esaminare il fenomeno con la lente dell’ottimismo. Ma, tenendo presente che anche il già citato rapporto di medio termine della UE sui trasporti su cui si era basata quell’analisi, ritengo che ora si possa decisamente confermare che la fase di de-linking ha ormai messo radici in Europa.

Tornando al Regno Unito, il “rapporto Eddington” traccia le linee-guida per il futuro. In sintesi: un cambiamento più verso la qualità che verso la quantità, più verso le infrastrutture immateriali che quelle materiali. E cioè, nessuna urgenza e nessuna priorità per i grand projects; viceversa, un forte impulso all’efficienza, attraverso strumentazioni tecniche ed economiche, alcune delle quali sono già oggi ampiamente collaudate. Per esempio lo “scheduling” per il trasporto merci, per utilizzare in maniera sempre più massiccia l’informatica, e il “pricing” per i passeggeri, per evitare la congestione attraverso pedaggi sempre più estesi e sempre più differenziati per fasce orarie. Insomma, se volessimo utilizzare uno slogan, potremmo dire che si sta passando dai TIR ai BIT. Infine il “Transport Study” prende adeguatamente a carico gli obiettivi ambientali, così come definiti dal “Rapporto Stern” dell’ottobre 2006. Qual è il nuovo modello di sviluppo che si comincia a intravedere?


Oltre la crescita materiale

Nel 1972 il “Club of Rome” pubblicò il rapporto su “I limiti dello sviluppo”. Le conclusioni sul futuro dell’uomo e del Pianeta erano pessimistiche, per una serie convergente di ragioni. Innanzitutto si partiva dall’idea che lo sviluppo si identificasse sostanzialmente nella crescita materiale. Basti ricordare che nella versione originale, in inglese, il titolo del rapporto era “The limits of growth”. Del resto allora la povertà era ancora la condizione prevalente dell’umanità. Inoltre in quel periodo storico il tasso di incremento demografico aveva superato il 2% annuo e tendeva ad aumentare ancora; si doveva così prevedere un raddoppio della popolazione mondiale ogni 30 anni. Combinando questi fattori, ne derivava un’impellente necessità di crescita, della quale, peraltro, non si riusciva a scorgere nessuna fine. Ma questa crescita comportava sia il consumo di risorse sia la produzione di inquinamenti. E, dato che risorse ed inquinamenti avevano a che fare con le dimensioni finite del pianeta Terra, ne discendeva l’impossibilità di quadrare il cerchio. Conclusione: la crescita senza limiti era obbligata ma irrealizzabile.

Nasce così la “cultura dei limiti”: ogni cosa, prima o poi, è destinata a finire. Al massimo, quello che si può fare è gestire con saggezza il patrimonio disponibile, per farlo durare il più a lungo possibile. Questa cultura porta ad una visione fatalistica e dirigistica e, sul piano personale, concede forti attenuanti all’inazione e alla deresponsabilizzazione. Del resto, a sostegno di questa cultura c’era anche la validazione scientifica del MIT che, per conto del “Club of Rome”, aveva approntato i primi modelli matematici a scala planetaria. Per esempio, per il rame, metallo fondamentale per tutte le apparecchiature elettriche, era stato previsto il suo esaurimento in un arco compreso fra 36 e 48 anni, e cioè al minimo il 2008 e al massimo il 2020. Che cosa è in realtà successo? Nonostante la domanda sia stata molto più alta del previsto, oggi, a meno di un anno dalla prima scadenza, non solo non si è esaurito nulla, ma non c’è ancora alcuna ombra di tensione sui prezzi. Semplicemente è accaduto che oggi riciclare il metallo costa meno che estrarlo. Quindi possiamo ancora prevedere che le miniere verranno chiuse, magari proprio entro il 2020, ma non per esaurimento delle stesse, bensì perché non ci sarà più domanda di minerale vergine. E questo succederà non solo grazie al riciclo, ma anche e soprattutto grazie ad un uso sempre più efficiente della materia. La recente direttiva comunitaria “Raee” sul riciclo e sul riuso dei prodotti elettrici ed elettronici darà una poderosa spinta in questa direzione. E quella del rame non è affatto una storia isolata.

In Germania, da quest’anno, le auto prodotte, alla fine del loro ciclo di vita, devono essere ritirate dalle fabbriche al 90% e, di questa percentuale, deve essere riciclato l’80%. Nel 2015, i valori saliranno rispettivamente al 95% ed all’85%. In una data da fissare successivamente si arriverà al 100% di tutto. Oggi, per costruire un’automobile, servono almeno 20 tonnellate di materie prime. Di esse, nell’arco di qualche decennio, non ci sarà più bisogno. Questo trend, oltre la materia, riguarda anche l’energia. Un solo dato può essere indicativo. L’Agenzia Internazionale per l’Energia, (Iea), ha comunicato che i 30 Paesi più industrializzati, che assorbono il 60% del petrolio, nel 2006 hanno ridotto dello 0,6% la domanda rispetto al 2005. E’ vero che i prezzi erano alti e l’inverno è stato mite, ma le ragioni decisive consistono sia in un uso sempre più consistente delle fonti rinnovabili, sia in un consumo sempre più parsimonioso dell’energia. Se ne ricava una linea di tendenza generale: la produzione dei Paesi più avanzati è sempre più fatta di conoscenza ed ha sempre meno bisogno di materia e di energia.

Oggi, dunque, cominciamo a distinguere fra sviluppo e crescita materiale. Per quanto riguarda la crescita, che è quella che serve a soddisfare i fabbisogni primari della popolazione, oggi cominciamo a pensare che essa finirà, non a causa dei limiti, ma perché di essa non avremo più bisogno. Grazie alla tendenza all’esaurimento della transizione demografica, ma grazie anche e soprattutto ai progressi della scienza e della tecnica. Finita la crescita, ci sarà sempre più spazio per lo sviluppo, cioè quello sviluppo che tenderà a non avere più nulla di necessitato e che avrà sempre meno bisogno di materia e di energia. Sarà una sorta di sviluppo creativo, alimentato dalla conoscenza e dalla fantasia e intessuto con le libere scelte degli uomini.

Il mondo politico italiano, ma anche quello culturale, sono rimasti fermi ai “limiti dello sviluppo”. Molti buoni propositi ma poche azioni concrete. Sarebbe molto stimolante cominciare a dibattere nel nostro Paese non solo di crescita ma anche di un nuovo modello di sviluppo, possibilmente coinvolgendo anche quei tanti italiani che sempre più spesso dimostrano che la creatività è già diventata il motore fondamentale della loro vita quotidiana.