Estratto da: Mugello, i disastri del TAV

Reportage

 

di Massimiliano Borgia da Luna NUova del 16/3/10

 

Il disastro del Tav in Mugello è una vera e propria brutta pagina nella storia delle grandi opere del nostro Paese. Quello che è successo laggiù è un fatto storico sia per la eco che ha avuto sui giornali e nella politica, sia perché perfettamente utilizzabile d'ora in poi come monito per quei territori che, come la valle di Susa, la collina morenica e la cintura torinese, sono interessati da grandi progetti. E poi perché per la prima volta c'è non solo una condanna penale in primo grado ma anche una pesantissima richiesta di indennizzo da parte della Corte dei conti.

Ci sono voluti quattro anni e 100 udienze di battaglia processuale ma alla fine, almeno in parte, il Mugello ha avuto un primo riconoscimento di quanto ha patito.

 

Dopo il rinvio a giudizio nel 2003, si apre nel febbraio 2004 un processo penale presso il Tribunale di Firenze. Il 3 marzo 2009 viene pronunciata la sentenza di primo grado: 27 condan­ne per reati ambientali, da tre mesi d'arresto a cinque anni di reclusione, e provvisionali per il risarcimento danni alle parti civili di oltre 150 milioni di euro. Le pene più alte sono inflitte ai vertici del Cavet, il consorzio di imprese che ha avuto in appalto i lavori: cinque anni per Alberto Rubegni, presidente del Cavet e amministratore delegato di Impregilo (l’impresa che guidava il consorzio Cavet) e per Carlo Silva e Giovanni Guagnozzi, rispettivamen­te consigliere delegato e direttore generale del Consorzio.

 

Ma se il processo è arrivato fino in fondo lo si deve al giudice Alessan­dro Nencini che con caparbietà, per quattro anni di interminabili sedute con perizie e controdeduzioni tec­niche, ha sempre fissato un'udienza a settimana. La condanna (per ora soltanto in primo grado) riguar­da soprattutto l'accusa di avere disseminato la valle del Mugello di discariche di smarino e fanghi contaminati dagli idrocarburi che venivano utilizzati per non fare at­taccate il cemento dei getti alle centine di metallo, oltre ad avere organizzato un illecito smaltimento di rifiuti.

 

Tutto qui? Veramente no. Per gli altri reati, come la truffa ai danni della Regione, è intervenuta la pre­scrizione anche se il processo era ancora in corso. Per il reato di furto d'acqua il Tribunale ha disposto la trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale perché Cavet ha usato senza autorizzazioni acqua pubbliche per milioni di euro per gli impianti di betonaggio e il lavaggio dei mezzi meccanici e le altre attività di cantiere. Il rinvio alla Consulta è dovuto all'interpretazione della depenalizzazione intervenuta per i reati connessi all'uso di acque per fini industriali.

 

E dopo la prima condanna penale è arrivata anche la contestazione della Corte dei conti che chiama a “controdedurre" anche la Regione, che finora era passata come parte lesa ma che per i mugellani ha avuto una forte dose di corresponsabilità negli errori fatti da Cavet.

 

Così la Corte dei conti soltanto due mesi fa ha ipotizzato 741 milioni e 279mila euro di danni erariali. E ha chiamato a risponderne gli ammini­stratori che approvarono un progetto che la Corte stima privo di adeguati studi di impatto ambientale o che non avrebbero vigilato a sufficienza sui danni causati dai lavori in galleria. Nelle controdeduzioni la Regione ha risposto che non è tra i responsabili dei danni in Mugello anche perché il Tribunale ha appena riconosciuto proprio alla Regione un danno subìto quantificato in 50 milioni.

 

Ma anche dopo questi primi ri­conoscimenti non si è ancora fatto molto per sanare il territorio.

 

Il primo treno ad alta velocità, il Frecciarossa, è passato sulla linea Fi­renze-Bologna il 13 dicembre. Ma in questo angolo di tipica Toscana, que­sta lunghissima storia non è ancora finita. Certo, a vederla oggi, questa linea ad alta velocità che corre in superficie soltanto per una manciata di chilometri e che buca e sbuca nove volte tra ampie vallate e la conca del lago preistorico del Mugello, non sembra niente di particolare. Forse, sono più un pugno negli occhi di chi guarda questo paesaggio che dovrebbe essere bucolico le nuove aree commerciali e artigianali e le tante serie di villette a schiera nate dove i sindaci avevano ottenuto le circonvallazioni, gli svincoli e le rotonde per non avere le strade ingolfate durante i cantieri.

 

La stretta linea ferrata è un po' come la Torino-Milano o la linea che si vede dall' Autosole in Emilia, ma senza tutti quei sovrappassi. Si vede una ferrovia con qualche metro di contorno in banchina e i tralicci dell'alimentazione; in più, visto che ci sono molti chilometri di gallerie, vedi le stazioni di servizio, le strade di accesso, le sottostazioni elettriche. Tutto intorno erbetta, con qualche zona di scavo ancora da "cicatrizzare".

 

Ma nel day after dei cantieri Tav non ci si può fermare alla prima vista. Visto così il Frecciarossa che sibila all'uscita delle gallerie sembra una pubblicità delle ferrovie, di quelle con il treno immerso armonica­mente nel paesaggio italia­no. Invece quello che resta sono 57 km di torrenti che in estate sono un deserto di sassi (una ventina, compre­si i minori), 73 sorgenti e 45 pozzi prosciugati, cinque acquedotti oggi riforniti con un sistema costosissi­mo di ripompaggio a monte dell'acqua drenata.

 

E' vero che per la prima volta si bucava l'Appennino con tunnel base a 200-250 metri di quota, con oltre mille metri di montagna sopra. Ma è anche vero che la storia dei cantieri Tav del Mugello è stata una continua sperimentazione sul cosa fare. Una scarsa program­mazione, una scarsa qualità delle ricogni­zioni preventive in una geologia complessa e molti problemi, anche normali quando si scavano chilometri di gallerie, per i quali non era stata preventivata una soluzione. Una superficialità continua che sta non tanto nella mancanza di esperienze simili ma nel meccanismo stesso della ri­partizione delle competenze in ogni realizzazione di grandi opere.

 

E' per questo che non è così scontato che quanto è successo in Mugello non potrà più accadere in valle di Susa soltanto perché qui si sta facendo tutto in modo differente. I fiumi dei Mugello sono prosciugati semplicemente perché si è fatta una galleria in basso proprio come quelle che si vogliono fare in valle di Susa. Queste gallerie hanno intercettato la falda acquifera in roccia che funzio­na come una vasca da bagno piena che tracima. L'acqua che tracima si infila nelle fessure della roccia anche a quote molto più alte del fondo alimentando le sorgenti dei torrenti anche a 600-800 metri di quota. Se si toglie il tappo tutta l'acqua esce da sotto e sopra non tracima più nulla. «Hanno portato via in un colpo solo anche acqua vecchissima - ricordano all'Osservatorio ambientale locale - acqua che era nella roccia da secoli. Lo sappiamo perché analizzando il contenuto minerale di queste acque siamo in grado di stabilire da quanto tempo sono entrate nella roccia. Hanno stappato un sistema di vasi comunicanti complicatissimo che aveva la sua base sull'acqua vec­chia che permetteva a quella nuova di sfiorare nelle sorgenti a monte. Avevano previsto un impatto sulle sorgenti solo per poche centinaia di metri ai lati delle gallerie. Invece hanno finito per prosciugare sor­genti molto in alto e distanti anche diversi chilometri dallo scavo delle gal­lerie: una fascia di impatto assolutamente non uniforme».

 

L'Osservatorio tutte questa cose le ha messe su carte geografiche. Le fasce di impatto sulle sorgenti e quindi su acquedotti, pozzi e torrenti sono larghissime e poi più strette vanno fino a 4 km e in certi casi a 8 Km. «Certo, dipende dall'orografia, da come sono le montagne e da come giacciono gli strati di roccia. E’ dif­ficile da prevedere cosa fa l’acqua». «Eppure nelle riunioni informative sembravano sempre sicuri di sé - ricor­da la sindaca di Scarperia - Ci dicevano sempre che sapevano dove prevedere eventuali problemi alle falde. Infatti si è visto».

Per la valle di Susa le falde potrebbero interes­sare il tunnel di base, la galleria Orsiera e quella della Collina morenica. Ma danni potrebbero verificarsi in un sistema che potrebbe coinvolgere de­cine di prese di acquedotti comunali e torrenti anche in val Sangone.

 

E' successo che nel­la galleria "Firenzuola" una galleria di servizio si riempisse dopo aver intercettato una grossa venuta d'acqua. Quella galleria è ancora lì, inu­tilizzata. «Pensi, che la possibilità di prosciugare i torrenti non era nemmeno stata presa in con­siderazione - ricorda amaramente il professar Giuliano Rodolfi, geologo dell'Università di Firenze (oggi in pensione) che è anche il direttore storico dell'Osservatorio ambientale locale -Nello studio d'impatto am­bientale questa possibilità non era nemmeno contemplata».

 

Eppure qui sono stati prosciugati corsi d'acqua come il Veccione che scorrono all'interno di aree tutelate di grande interesse naturalistico, dove si sarebbero dovuti valutare gli impatti ambientali in modo molto approfondito.

 

«Non avevano nemmeno previsto (eppure noi glielo avevamo detto tante volte) che le argille di questa zona avrebbero spinto contro le gallerie. Che infatti hanno dovuto rifare perché crollavano».

Già, perché una cosa che non si sa molto è che la Cavet ha dovuto demolire due km di galleria con un allungamento dei tempi di due anni, proprio perché i progettisti non ave­vano immaginato la pressione del sottosuolo imbevuto d'acqua. Invece di un rivestimento drenante è stato scelto un rivestimento impermeabilizzante esponendo così le coperture alle 40 atmosfere di pressione di colonne d'acqua di 400 metri.

 

Oggi a distanza di ben 10 anni dal prosciugamento dei torrenti è in atto un bizzarro sistema di rilanci d'acqua. Con un'operazione costosissima che dura appunto da un decennio, si paga il costo delle pompe che rimandano un po' a monte l'acqua drenata dalle gallerie. In questo modo le parti terminali dei torrenti (non quelli a monte) vivono di acqua riportata dalle gallerie. Due di questi "rilanci" servono per diluire gli scarichi fognari che gettano negli alvei asciutti.

 

E' successo anche che un fiume che confluiva nella Sieve scorrendo a nord, venisse intercettato tutto nella galleria di Vaglia e ora riempie un al­tro fiume che scorre a sud verso Sesto Fiorentino. «Dalle gallerie, drenate, escono 500 litri al secondo. Una quantità enorme di acqua che dopo 10 anni nemmeno si sa come utiliz­zare. Non sanno se usarla per opere irrigue oppure per gli acquedotti. Ma qualunque opera del genere presuppone una rete, tutta nuova: costi che andavano previsti prima. Adesso non si sa dove prendere i soldi e non si sa chi deve farlo».

 

Ma i danni del Tav non si sono limitati alle acque.

 

Come visto e accertato, dai buchi è uscita una fanghiglia sporca di cemento e di oli usati per l'avanza­mento delle gallerie. Una poltiglia inquinata che è classificata "rifiuto speciale".

 

Ora questi fanghi e lo smarino, indicati comunque come rifiuti da smaltire in discariche speciali (poi si è scoperto che non erano così inquinati anche se non stavano dentro i parametri), hanno formato delle collinette da milioni di metri cubi che dopo tutti questi anni si stanno ricoprendo di boschetti. Sono lì e nessuno sa cosa farne. Il comune che li ospita non può usare quell'area enorme e, a valle, c'è un campo pozzi dell'acquedotto che va continuamente monitorato. E di movimenti di rifiuti in giro per le discariche di diverse ditte, ne ce ne sono stati tanti. Il cantiere Tav si è portato dietro anche operazioni poco pulite in tutti i sensi.

 

Poi restano cantieri abbandonati. «Sono sparite le ditte che lavoravano - ricordano i sindaci - e hanno lascia­to i cantieri dov'erano. Ci sono le aree di cantiere con baracche, materiali edili, ferro vecchio, discariche. In buona parte an­cora lì». In par­ticolare, c'è uno di questi posti, tra San Piero e Vaglia che è ancora così. Con i cantieri è finito anche il monitoraggio costante. «Invece qui serve un monitoraggio anche dopo la fine dell'opera, ma non per due anni. Ce ne vogliono almeno dieci. Ci sono effetti che possono manifestarsi anche dopo molto tempo».

 

Ma oltre ai danni ambientali ci sono anche quelli economici, con tanto di beffa. Per esempio, qui si aspettano ancora buona parte delle compensazioni che i Comuni aveva­no trattato in cambio del Sì all'opera. «Le strade per evitare l'impatto del transito dei mezzi di cantiere le hanno fatte subito - ricordano i sin­daci - Poi è stato fatto qualcosa. Ma mancano ancora molte delle opere promesse. E mancano anche i soldi già promessi per risanare i danni ambientali. Così i sindaci che ci ave­vano messo la faccia con i cittadini non possono nemmeno dire di avere portato a casa la palestra o l'asilo che erano stati promessi».