Estratto da Corruzione ad Alta Velocità di F. Imposimato, G. Pisauro, S. Provisionato. Koinè nuove edizioni
[Cap. IV – Nel tunnel dell’inchiesta - pagg. 92-96]


Un’inchiesta mancata

 

Per comprendere fino in fondo i contorni e l’ampiezza dello scandalo dell’Alta velocità ferroviaria, ma soprattutto per capire che questo scandalo poteva essere scoperto, è necessario fare un passo indietro, appunto, di tre anni e mezzo. Ci spostiamo a Milano,  dove le inchieste di “tangentopoli” sono al loro massimo storico. La fase discendente della parabola giudiziaria milanese è ancora lontana.

E’ un giovedì. Giovedì 11 marzo 1993. Quel giorno nel capoluogo lombardo viene arrestato un manager pubblico. Il suo nome dice poco, ma l’uomo è stato un amministratore di un certo rilievo. Si chiama Raffaele Santoro ed è stato presidente dell’Agip, società petrolifera del gruppo Eni. Interrogato dai sostituti procuratori di Milano Antonio Di Pietro e Gherardo Colombo, Santoro non si fa pregare per disegnare uno scenario quanto meno impressionante. Esiste da tempo – racconta l’ex dirigente – una sorta di “cartello”, quantomeno un “patto di non belligeranza” tra quattro società di ingegneria, quattro società che si sono accordate per dividersi i più importanti appalti per la costruzione di grandi impianti. Questo “cartello” – spiega ancora Santoro – è formato da Snamprogetti, Tpl, Ctip e Techint e che il “garante e arbitro” è il banchiere Pierfrancesco Pacini Battaglia.

 

Parlando n particolare della Tpl, Santoro racconta a Di Pietro e Colombo che questa società ha al suo interno una specie di nume tutelare: il presidente delle Ferrovie dello Stato Lorenzo Necci che proprio in Tpl cominciò la sua carriera all’interno dell’ufficio legale, prima di diventare componente della giunta dell’Eni e poi presidente dell’Enichem. Sempre stando alle dichiarazioni di Santoro, la Tpl, negli ultimi quattro anni, avrebbe acquisito commesse per almeno tremila miliardi di Lire in Iran.

 

Il racconto di Santoro resterà lettera morta. Pacini Battaglia farà la sua comparsa (una vera comparsata durata appena dieci ore, giusto il tempo di un interrogatorio) solo nell’affare dei fondi neri Eni. Necci conoscerà il carcere soltanto tre anni e mezzo dopo, ad opera della magistratura di La Spezia. Delle quattro società che compongono il “cartello” di cui Santoro parla – fin dalla primavera del 1993 – quella che ci interessa più da vicino è proprio la Tpl che, per usare le parole dell’ex presidente dell’Agip, vede Necci nella veste di “nume tutelare”. Ma che cos’è la Tpl, la cui documentazione verrà sequestrata da Di Pietro il 15 aprile 1993?

Tpl significa Tecnologie Progetti Lavori ed è una società di ingegneria creata con il compito di assegnare consulenze in materia di progettazione. In realtà – ma questo, nonostante le indagini del sempre solerte Di Pietro, lo scoprirà la magistratura di Perugia solo nel 1998, cioè ben cinque anni dopo – la Tpl era stata costituita per diventare una sorta di contenitore occulto di mazzette, provenienti da più parti, che finivano nelle tasche di Necci e della sua famiglia, ma non solo.

 

Tutto questo - lo ricordiamo – lo scopriranno i magistrati di Perugia. Ma perché, pur incappando, ben cinque anni prima, negli affari sporchi della Tpl, Antonio Di Pietro, e con lui Gherardo Colombo, non erano riusciti a venire a capo di nulla? Eppure sempre nel 1993, interrogato dai magistrati del pool di Milano, il finanziere Sergio Cragnotti, attuale presidente della Lazio calcio, all’epoca amministratore delegato di Enimont e buon amico di Raul Gardini, aveva raccontato di aver ricevuto dalla Tpl cinque miliardi, soldi poi bonificati da Pacini Battaglia. Due miliardi – aveva riferito Sergio Cragnotti – li aveva tenuti per sé, due erano finiti a Gardini, e l’ultimo a Necci (allora presidente dell’Enimont) e Pacini Battaglia. Sarebbe bastato controllare questa confessione per scoprire che cosa era realmente la Tpl. Ma, ascoltato dal procuratore di Milano Francesco Saverio Borrelli, ignaro delle carte processuali e stranamente tirato in ballo, Pacini Battaglia nega tutto e sconfessa Cragnotti. Ed ecco la seconda stranezza: anziché essere messo a confronto con Cragnotti da Di Pietro, Pacini Battaglia viene creduto come fosse un oracolo e mandato a casa. Non era mai accaduto nel “rito ambrosiano”, quello officiato da Di Pietro, che un imputato, disposto non solo a confessare , ma soprattutto a fare dei nomi e a fornire precisi riscontri obiettivi che a distanza di anni sono stati trovati, non sia stato creduto. Mentre un altro imputato, che dello stesso fatto negava tutto, venisse prima creduto e subito dopo lasciato libero di inquinare le prove. E di corrompere – secondo i pubblici ministeri di Perugia – diverse altre persone.

 

Per questa brutta pagina giudiziaria Di Pietro finirà sotto inchiesta davanti ai magistrati di Brescia che nel marzo 1998 lo accuseranno, tra l’altro, di aver omesso di sviluppare, dal punto di vista investigativo, “come sarebbe stato necessario e possibile, attraverso rogatorie internazionali, le notizie fornite”. Lo stesso Di Pietro avrebbe quindi creduto a Francesco Pacini Battaglia, senza verificare ciò che aveva detto Sergio Cragnotti – tutte rivelazioni confermate anche da un altro imputato, Roberto Marziale – e cioè che a Necci “era stata accreditata una somma di un milione e mezzo di franchi svizzeri sul conto intrattenuto presso la Karfinco”. In altre parole la procura di Brescia raggiungerà la convinzione che Antonio Di Pietro, da pm di Milano, avesse favorito il banchiere, omettendo una serie di indagini sul suo conto e salvando di fatto personaggi come Necci. Secondo i magistrati bresciani, infatti, Di Pietro aveva revocato la rogatoria con la Svizzera che avrebbe invece consentito di scoprire che presso la Karfinco di Ginevra, cioè la banca di Pacini, erano accesi conti intestati a diversi coindagati, tra i quali i responsabili dell’Eni e della Tpl.

Ma il gip di Brescia Anna Di Martino ha prosciolto Antonio Di Pietro da tutte le accuse con la formula “perché il fatto non sussiste”.