da GRANDI OPERE COL TRUCCO

di Gianni Barbacetto dal sito web di “società civile” (http://www.societacivile.it/primopiano/articoli_pp/grandi_opere.html#su)
Novembre 2002

 


Qual è il modello finanziario e contrattuale inventato per le grandi opere? È quello codificato da tre leggi. La prima è quella voluta da Berlusconi per le cosiddette opere strategiche, cioè la legge Obiettivo (numero 443 del 2001, con conseguente decreto legislativo numero 190 del 2002), che dà vita al deus ex machina del nuovo sistema, un dinosauro economico chiamato general contractor: cioè una mega-impresa a cui sarà affidato dallo Stato il compito di decidere tutto, progettazione, affidamenti, appalti, direzione lavori, esecuzione, collaudo... La seconda è quella definita da Tremonti, cioè la legge salva-deficit (numero 112 del 2002), che fa nascere dal nulla due società, due centauri un po’ pubblici e un po’ privati (di capitale pubblico ma di diritto privato): la Patrimonio dello Stato spa e la Infrastrutture spa. La terza nasce dalla testa di Lunardi ed è la legge delega sulle infrastrutture (numero 166 del 2002), che stravolge la precedente legge Merloni sui lavori pubblici e introduce la quadratura del cerchio, il miracolo per fare ciò per cui non si hanno i soldi: il project financing.


La trinità Berlusconi-Tremonti-Lunardi ha così inventato un modello nuovo, anzi nuovissimo, per far sorgere le grandi opere. In verità, i tre dovrebbero ringraziare un genio della Prima Repubblica, Cirino Pomicino, inventore nel lontano 1991 dell’architettura contrattuale e finanziaria della Tav, l’Alta velocità ferroviaria. Un po’ lo hanno ringraziato, citando la Tav quando è stato presentato il decreto attuativo della legge Obiettivo: «L’affidamento a general contractor ha consentito alle Ferrovie dello Stato di dimezzare i tempi di realizzazione delle tratte Alta velocità avviate, con una spesa finale non dissimile». L’affermazione, naturalmente, non trova riscontri in natura: per esempio la tratta Tav Bologna-Firenze (che Lunardi conosce bene, perché con la sua società Rocksoil è tuttora consulente dei lavori) è partita nel settembre 1991 con una previsione di spesa di 2.100 miliardi di vecchie lire.


Oggi sono passati 11 anni, i cantieri non sono ancora chiusi e i costi sono lievitati a 8.150 miliardi: raddoppiati i tempi, quadruplicati i costi. Ma queste sono quisquilie. L’importante è che il «nuovo» modello – in realtà il vecchio modello Tav con in più un tocco di cosmetici, un po’ di rossetto qua, un filo di rimmel là – abbia realizzato una sorta di sanatoria nei confronti dei profili di illegittimità del sistema Tav, già descritti e denunciati dall’Antitrust e dalla Procura di Perugia. E abbia introdotto il general contractor come soggetto economico incaricato della progettazione e della realizzazione, senza alcuna responsabilità sulla gestione finale dell’opera. E il project financing come sistema per attingere soldi privati, ma del tutto garantiti dallo Stato.

 

Un bel sistema. Il general contractor progetta e costruisce l’opera, ma senza rischi: sa che non la gestirà, che non dovrà ricavarci i soldi spesi, perché questi sono interamente pagati e garantiti dallo Stato. Non ci si potrà stupire, dunque, se il general contractor spingerà a far durare il più possibile i lavori e a far lievitare al massimo i costi (esattamente quello che è già successo con le tratte dell’Alta velocità: dovevano costare 18.400 miliardi di lire nel 1991, nell’agosto 2001 costavano già 34.880 miliardi, alla fine lieviteranno, secondo una stima del Quasco, verso i 76.100 miliardi). Inoltre il general contractor, a differenza del concessionario tradizionale, di lavori o di servizi pubblici, potrà agire in regime privatistico, potrà affidare i lavori a chi vorrà, anche a trattativa privata, e qualunque cosa faccia non sarà mai perseguibile per corruzione: è un privato, eventuali tangenti saranno soltanto «provvigioni».


Altra idea geniale, quella del project financing: i soldi arriveranno in parte direttamente dallo Stato, e per il resto dai privati (le banche), ma garantiti totalmente dallo Stato, attraverso Infrastrutture spa o Stretto di Messina spa (società interamente pubbliche, ma di diritto privato). Così per anni lo Stato avrà un debito, ma occulto, che non sarà iscritto nel bilancio dello Stato e non inciderà nel calcolo dei parametri del Patto europeo di stabilità. Alla fine, però, al tavolo di poker delle grandi opere le fiches dovranno essere trasformate in soldi. Al termine dei lavori, dopo – chissà – una decina d’anni, la Tav spa, la Infrastrutture spa, la Stretto di Messina spa (e, in ultima analisi, il ministero dell’Economia) dovranno restituire i prestiti delle banche. E di colpo si aprirà una voragine. Capace di affondare l’Italia e di trascinare nel disastro l’euro.


Perfino l’Ance (l’associazione dei costruttori italiani) è arrivata a fischiare il numero due di Lunardi, il viceministro Ugo Martinat, durante una manifestazione organizzata il 26 settembre alla Luiss di Roma. Ormai solo l’Agi (l’associazione che riunisce le trenta imprese grandi e grandissime) plaude alla linea Lunardi e lo appoggia con trasporto, aiutandolo anche all’interno del ministero. Dicono i sostenitori del modello grandi opere: le opere garantiranno utili sufficienti a pagare i debiti. Veramente improbabile: per la sola Tav la quota annua da restituire sarà prevedibilmente intorno ai 5 mila miliardi di vecchie lire; la quota annua di utili disponibili grazie ai biglietti ferroviari potrà arrivare al massimo attorno ai 500 miliardi di lire.


Per uscire da questa situazione, dunque, dovremmo sostenere per una quindicina d’anni una manovra finanziaria pari a 4.500 miliardi di lire. Povera Italia, povera Europa. Ma intanto, che importa. Il ponte sullo Stretto avrà la posa della prima pietra, si taglieranno nastri e si stapperanno champagne. Politici sorridenti cominceranno a far «girare soldi», a dare appalti e subappalti, ad accontentare amici e amici degli amici, a raccogliere applausi e voti. Domani, si vedrà.