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Un contributo sul tema della partecipazione Stampa
Scritto da Un'altra città - Vimodrone (Milano)   
Martedì 06 Ottobre 2009 17:37

Io partecipo,tu partecipi,egli partecipa,noi partecipiamo,voi partecipate,essi decidono” (Anonimo, Parigi 1968)Esistono in Italia esperienze abbastanza consolidate di partecipazione sia cosiddetta dal basso, ovvero nata dalla mobilitazione dei cittadini, che dall’alto cioè stimolata dagli enti locali.Lo scopo di questo articolo è quello di fare una ricognizione a livello nazionale di alcune tra la più innovative occasioni di partecipazione dei cittadini alla programmazione delle politiche sociali.

Non si tratta di una schedatura metodica di esperienze già consolidate bensì di processi, alcuni abbastanza riconosciuti, altri ancora in forma embrionale.Quello che ho verificato durante la mia ricerca è che esistono delle connessioni abbastanza evidenti tra diverse esperienze, siano esse frutto dello spirito innovativo degli amministratori pubblici, oppure emersioni dal basso di esigenze condivise da larghi strati della popolazione.Mi interessa quindi fare il punto sulla partecipazione nelle politiche sociali, ma occorre fare prima una riflessione sul termine politiche sociali. Non mancano certo le definizioni soprattutto se guardiamo al contesto europeo.A partire dagli anni 90, la cornice europea delle politiche sociali, ha fortemente condizionato le politiche pubbliche italiane nelle materie sociali. La spinta dell’Unione Europea esercitata sui paesi membri verso un’armonizzazione delle politiche e l’elaborazione di un modello sociale europeo ha favorito il percorso di trasformazione da sistemi di government a sistemi di governance.All’interno di questo quadro, le politiche sociali hanno avuto il compito di supportare lo sviluppo economico, rendendolo socialmente più sostenibile e valorizzando le risorse, in quanto potenziali di sviluppo.Anche il principio della partecipazione gode di un riconoscimento ufficiale a livello europeo: infatti compare fra i cinque principi di base che vengono fissati nel Libro Bianco sulla governance europea, redatto dalla Commissione Europea, che stabilisce le linee guida per ridisegnare le politiche e le istituzioni dell'Unione Europea. A questo punto però dobbiamo intenderci su cosa intendiamo per partecipazione, cioè l’accesso dei cittadini all’area decisionale delle politiche.Riprendendo una scala classica (Arnstein 1969) potremmo classificare le varie forme della partecipazione dei cittadini a seconda del potere effettivo di questi ultimi riconosciuto dallo strumento. Dalle tre macroaree identificate da Arnstein (potere effettivo dei cittadini, cooperazione simbolica e assenza di partecipazione) discende una classificazione più articolata, in otto passaggi che vanno dalla manipolazione dei cittadini a fini di consenso politico al controllo totale da parte dei cittadini stessi.La prima domanda necessaria per descrivere un processo di partecipazione è chi sono gli attori in gioco. Le possibilità sono molteplici e vanno dal coinvolgimento solo delle amministrazioni pubbliche (che sono legittimate dall’essere elette dai cittadini), al coinvolgimento delle organizzazioni sociali (associazioni, cooperative, sindacati) fino al coinvolgimento dei cittadini in forme non organizzate.Diventa quindi importante definire con chiarezza chi decide le procedure di selezione, ma anche salvaguardare la visibilità pubblica dei processi che la precedono. Un’altra domanda fondamentale riguarda quandoIn questi anni si parla sempre con più frequenza della crisi della democrazia rappresentativa e delle potenzialità della democrazia deliberativa. Il presupposto implicito sembra quello che i cittadini siano “obbligati” a partecipare. Il vantaggio della democrazia rappresentativa però è quello di permettere una partecipazione minima a tutti (il voto) e di non fare selezione sulla base del tempo a disposizione o delle competenze comunicative come spesso avviene nelle forme deliberative.Inoltre bisogna valutare il possibile grado di retorica nell’argomentare le possibili forme di partecipazione che possono diventare delle vere e proprie manipolazioni dei cittadini interessati in modo che appoggino le scelte operate ai tavoli delle partnership tra amministrazione pubblica e privati. Come dicevamo prima la visibilità pubblica è la forma più efficace per contrastare questa tendenza all’opacità. Bisogna distinguere tra la partecipazione intesa come tecnica di costruzione del consenso ad un programma già deciso, e la partecipazione intesa come attivazione della cittadinanza per la messa a punto di un programma (Bifulco, De Leonardis).Se proviamo a calare il principio della partecipazione nella realtà quotidiana ci troviamo di fronte ad altri due termini molto noti ma non sempre applicati: inclusione ed integrazione.Il primo termine risulta un indicatore importante del reale livello di partecipazione, come si diceva prima se riesco ad attivare un processo includente è più facile che il risultato sia riconosciuto come valido e quindi difeso da chi l’ha costruitoIl secondo termine ci aiuta a spiegare meglio cosa si intende per politica sociale.Se osserviamo ancora una volta ciò che deriva dalle indicazioni europee le politiche sociali riguardano diversi campi e sono chiamate ad integrarsi tra loro: il campo sociale e sanitario, dove persiste una grande separazione; il trattamento del disagio sociale e le politiche del lavoro; le politiche urbane e abitative (es. quartieri degradati) in una logica che sappia sia considerare sia place che people; le politiche di sviluppo delle economie locali che non possono avvenire in modo efficace senza coesione sociale; le politiche scolastiche e le politiche assistenziali; le che rivestono una grandissima importanza per gli impatti che generano sul tessuto sociale, e sui beni comuni ambientali, e che spesso dipendono da decisioni e strategie esogene ai territori coinvolti (basti pensare al caso TAV in tutta Italia, soprattutto se paragonato ai tagli alle ferrovie locali).E proprio la gestione del territorio è un’altra grande materia che sembra esigere integrazione. Sul territorio insistono politiche di sviluppo locale, politiche urbane, politiche infrastrutturali, politiche dei beni culturali, politiche ambientali, e molto altro ancora. E proprio dalla difesa del bene comune territorio nascono la maggior parte delle esperienze che ho considerato in questa sede. Ritengo infatti che sia questa la frontiere attuale delle politiche sociali: considerare il fatto che le politiche assistenziali, lavorative, culturali, sanitarie, insistono su di un territorio, su di un ambiente, che ha limiti propri insuperabili, pena il degrado e la rarefazione della coesione sociale.Riassumendo potremmo dire che l’integrazione delle politiche sociali dovrebbe essere una leva per attivare le capabilities degli individui (Sen). Le politiche sociali in tutta Italia invece sono residuali, riguardano l’assistenza, e non di si occupano di attivazione e partecipazione.Quindi partecipazione e politiche sociali dovrebbero viaggiare insieme anzi potremmo affermare che laddove è necessaria la partecipazione dei cittadini, abbiamo a che fare con una politica sociale.A questo punto possiamo dire che sia che si tratti di esperienze “top-down”, dove un’amministrazione locale si rende promotrice di percorsi partecipativi, che di esperienze “bottom-up”, ovvero quando i cittadini si mobilitano, interrogando le amministrazioni su quanto avviene nel territorio, ci troviamo di fronte ad esperienze che attivano, e a volte incrementano, il capitale sociale. Capitale sociale quindi come rete di relazioni capace di mobilitare l’azione collettiva e in particolare di promuovere l’agire cooperativo. “Una società o una comunità dove prevalgono buone relazioni tra gli individui sarà una società coesa, in grado di mobilitarsi per il raggiungimento di un obiettivo sociale, capace di trovare facilmente un accordo su questioni di interesse comune, dove le informazione circoleranno agevolmente tra i membri favorendo la diffusione delle innovazioni e così via” (Donolo).Come si evince dalle varie esperienze la dimensione locale e territoriale risulta fondamentale. A livello locale infatti sono più nettamente visibili: innescare un processo partecipativo ovvero a che livello del percorso. Più il processo sarà di tipo decisionale più è funzionale che gli attori siano coinvolti presto, per poter arrivare ad una decisione realmente condivisa. Se invece il processo è sostanzialmente consultivo (cioè il consenso su decisioni già prese) allora la partecipazione (se si può chiamare così) arriva necessariamente alla fine del percorso. politiche di sviluppo locale e infrastrutturali,

 

  • quali siano i problemi di natura sociale (sociali in senso stretto e sanitari, tali da incrinare la coesione sociale, o produrre fenomeni di marginalità o mancata integrazione, o anche di diminuzione della qualità sociale localmente percepita);
  • quale e quanto sia il capitale sociale disponibile ed attivabile per far fronte ai problemi sociali locali;
  • quali le forme di cooperazione possibili tra i diversi attori che hanno responsabilità istituzionali o sociali;
  • quali i potenziali attivabili, cioè le risorse latenti – partecipazione attiva dei cittadini, orientamento alla solidarietà e all’azione altruistica, competenze pratiche diffuse, reti e capacità di operare in rete, fiducia reciproca e nei confronti delle istituzioni – che risultano cruciali nel processo di integrazione delle politiche sociali;
  • quali gli impatti delle politiche stesse, cioè i risultati che effettivamente si riescono a raggiungere, direttamente e indirettamente (Donolo).

Le azioni che valorizzano ed incrementano il capitale sociale hanno come risultato atteso una partecipazione dei cittadini più alta, sia quantitativamente che qualitativamente. E a questo punto possiamo rivedere con più concretezza cosa significhi partecipazione.La partecipazione implica un esercizio del potere, la possibilità reale di decidere, di controllare, sia nel senso di determinare, che nel senso di verificare le azioni di coloro che hanno ricevuto/accettato deleghe. La discriminante centrale che permette di distinguere la partecipazione dal coinvolgimento, è la misura del potere e il suo reale esercizio.Il passo successivo è dunque quello di rendere possibile al cittadino di partecipare attivamente, ossia con atteggiamento propositivo alla individuazione dei servizi di cui ha bisogno e alla definizione delle modalità organizzative che gli sono più congeniali, esercitando, in forma associata, anche l’attività di controllo.“Non esiste reale partecipazione comunitaria se non esiste libertà di progetto e sviluppo. Non si può “partecipare” all’urbanistica, non più di quanto si partecipi alla medicina o a qualsiasi altra attività che i saperi specialistici chiudono nella cittadella dell’autosufficienza scientifica e tecnico-prestazionale” (Rei).Viene spesso evocata, quando parliamo di movimenti dal basso, la sindrome NIMBY cioè il ben noto acronimo che significa “non nel mio cortile”, cioè che lascerebbe intendere come il malcontento ad una decisione imposta (ad esempio la realizzazione di infrastrutture) sia legato al “come si fa” o “dove si fa” piuttosto che al “perché si fa”. L’analisi da me effettuata di diverse esperienze, classificate in modo sbrigativo dalla stampa con questo acronimo, porta alla luce un fenomeno del tutto differente.Quindi questi movimenti esprimono delle istanze di tipo egoistico o cercano di attivare o entrare in un processo di partecipazione? La questione non è ne semplice ne univoca (basti pensare che in Francia la partecipazione è prevista per legge ma funziona in pratica solo per le classi medie o medio-alte, le uniche realmente in grado di comprenderne i linguaggi), ma è sicuramente chiaro a tutti che l’interesse “generale” è qualcosa di molto lontano dalla realtà quotidiana dei cittadini.Ancora una volta è una questione di democrazia, ma è anche una possibile rilevante crescita di capitale sociale, di competenze diffuse, di ragionamenti critici sui propri e altrui stili di vita. E soprattutto quanto è grande il mio cortile? In che modo scelte prese lontano hanno ricadute vicinissime? Non a caso in Valsusa ogni anno si fa un “forum” che si chiama il Grande Cortile.Come reagiscono le autorità costituite a questa richiesta di partecipazione? Se una risposta di tipo repressivo da parte delle autorità è sempre possibile ed anzi piuttosto diffusa, è presente anche una risposta di tipo trasformativo, che coglie le parole d’ordine dei movimenti spontanei e cerca di indirizzarli verso scelte di fondo già determinate.Potremmo definirla (ed anzi si è autodefinita) una sindrome Pimby (please in my back yard, per favore nel mio cortile) che interessa amministratori pubblici e grandi soggetti privati, i quali fanno propri i linguaggi della partecipazione e della governance (definita regolazione negoziale degli interessi) allo scopo di realizzare “infrastrutture e impianti indispensabili alla modernizzazione del paese nel pieno rispetto dell’ambiente naturale e del territorio” (Premio PIMBY 2007). Possiamo ritenere queste esperienze come strumenti “verso la democrazia partecipata”?. Si intravedono in queste iniziative i rischi dovuti all’opacità nella definizione dei tavoli di partecipazione (chi sono gli stakeholders? Chi li seleziona?) e soprattutto le logiche di concertazione e compensazione, che si pongono molto distanti dalle esigenze di inclusività  e di visibilità pubblica che dovrebbero caratterizzare un percorso partecipato. Le amministrazioni pubbliche non possono ritenere che tutti gli stakeholders abbiano lo stesso peso. Sarebbe ingenuo pensare che i gruppi aziendali privati o le forze politiche non partano avvantaggiati nella definizione dei propri interessi rispetto ai singoli cittadini o alle associazioni locali. La forma di partecipazione più vicina alle indicazioni europee richiede la riduzione del divario tra gli stakeholders, orientando il pubblico verso la difesa dei portatori di interesse più deboli.“Spesso i processi partecipativi hanno una valenza meramente informativa. Amministrazioni e interessi economici ritengono che una migliore informazione sarebbe sufficiente ad assicurare l'accettazione di impianti e opere da parte dei cittadini. Un atteggiamento del genere rischia di risultare controproducente, perché non tiene conto delle preferenze dei cittadini, quand'anche le informazioni tecniche siano "rassicuranti" e credibili (condizione che peraltro ricorre di rado)”(Ambiente Italia).L’opposizione ad opere pubbliche “impattanti” è un fenomeno che ha radici antiche, riguardanti anche strutture di tipo “sociale” come carceri, manicomi, campi nomadi. Il fenomeno va letto in modo innovativo. Come l’opposizione ad un impianto di smaltimento dei rifiuti può essere l’occasione per una critica agli stili di produzione e di consumo di un territorio, così l’ostilità verso la creazione di un campo nomadi non va lasciata nelle mani di forze politiche e sociali xenofobe e razziste, ma può diventare lo strumento per il superamento della logica della tolleranza, verso una logica dell’integrazione. Non si tratta certo di credere ad una risoluzione del conflitto sempre possibile, ma di applicare gli strumenti della partecipazione a processi che spingano verso la consapevolezza dei cittadini.

[Questo contributo della associazione "Un'Altra Città - Vimodrone" è un estratto della tesi di Ernesto Pedrini, discussa ad aprile 2008 per il Corso di laurea Specialistica in Programmazione e Gestione delle Politiche e dei servizi sociali della Facoltà di Sociologia di Milano Bicocca. Ernesto Pedrini lavora come operatore sociale da più di 15 anni in diversi settori ed è stato promotore della lista civica "Un'altra città -Vimodrone", aderente al Patto di Mutuo Soccorso]